Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

lunedì 22 giugno 2015

L'università di Rebibbia

Il carcere è uno sconosciuto pianeta che pure gira in un’orbita vicinissima alla nostra città. Di questo pianeta tutti pensano di sapere tutto, esattamente come la Luna senza esserci mai stati.

È la frase-riflessione del libro dalla quale mi sento di partire, dopo averne letto un altro sempre sull’esperienza del carcere “Urla a bassa voce. Dal buio del 41bis e del fine pena mai” a cura di Francesca De Carolis.
Il carcere è un non-luogo, emblema di un paradosso, ovvero la detenzione come rieducazione alla vita civile. Ci troviamo invece di fronte al crollo di una società incapace di gestire i normali problemi derivanti dalla coesistenza di tante persone e che non trova di meglio che racchiudere il proprio fallimento tra quattro mura, buttando la chiave. Gente persa nei gesti e nei pensieri alla quale vengono distribuite giornalmente poche gocce di morte, a chi per poco tempo, a chi per vent’anni o per tutta la vita. Uno stillicidio mantenuto dai colloqui con i familiari, salvo poi decidere di accelerare il crack psichico con i trasferimenti in altri non-luoghi, interrompendo legami faticosamente creati sia all’interno che all’esterno.
Il carcere non è una scuola di vita, ma addirittura un’università dove tutte le dinamiche sono esasperate, magistrali, dove i vizi e le virtù ingigantiti, difficili da controllare, dove la differenza di classe è presente come fuori, insormontabile.
Nel carcere vige, crudele, la selezione naturale.
Tante le figure che nel romanzo danno vita a un guazzabuglio di emozioni, ad uno zoo colorato. C’è Giovannella che usa il carcere per abortire senza inutili perdite di tempo dovute alla burocrazia; Marrò, attrice tossico-dipendente, che si fa chiamare per cognome perché Teresa non le piace; Annunciazione, una specie di eunuco gigante, incapace di relazioni sociali, che entra ed esce dal carcere; la zingara che, contrariamente al normale, non importuna e non ti chiede niente perché non sta lavorando. E poi Barbara, Marcella, Roberta, Ornella e Suzie Wong, una cinese piccola, minuta che usa indossare una vestaglia orientale tutte le volte che entra in cella e si appresta a preparare il tè.
Contrariamente a quello che si pensa, il carcere è il luogo dove si parla di più d’amore e dove la voglia di tenerezza passa attraverso strade che la società considera contrarie alla norma, dimenticando che il carcere non è altro che il suo spettro.
Goliarda Sapienza aveva 55 anni quando entrò nella sezione femminile di Rebibbia per un furto di gioielli. A questa età è normale pensare di sapere già tutto del mondo, di aver vissuto a sufficienza da poter insegnare qualcosa; invece ci si ritrova a diventare studenti, a dover ricominciare tutto daccapo. Situazione che la scrittrice ha poi continuato a subire perché la sua grandezza narrativa non le fu mai riconosciuta se non post mortem.