Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

lunedì 30 novembre 2020

L'orologiaio di Everton

I libri di Simenon rappresentano per me lo svago tra un romanzo e l’altro, sono una ventata di aria fresca, un intervallo piacevole perché quando la scrittura è di alto livello, le parole e le situazioni narrate si susseguono senza intoppi, nessun rallentamento o elemento disturbante che induca il lettore a fermarsi e andare qualche pagina indietro per riannodare un filo che si è spezzato.

L’orologiaio di Everton, pubblicato nel 1954, è un romanzo giallo, pur non sembrando, con tutti gli elementi caratterizzanti: la suspence, il coinvolgimento, la sorpresa, il colpo di scena. Tutto è intriso di normalità, della monotonia di una vita scandita da azioni, sempre quelle. Il protagonista, Dave Galloway, orologiaio di professione, vive con il figlio Ben, un bravo ragazzo, all’apparenza timido, di poche parole. La moglie lo ha abbandonato quando il figlio aveva solo sei mesi e lui è andato avanti meglio che poteva. La sua vita è lo specchio fedele della frase “essere tutto casa e bottega”, dal momento che il negozio è sotto l’appartamento, e lui si concede poche distrazioni giornaliere, tranne il sabato che trascorre con l’amico Musak a guardare la partita di baseball dal giardino e a giocare a Jacquet (variante del backgammon).

Nonostante tutto sembri assolutamente piatto, si percepisce che qualcosa succederà, la suspence tiene incollato il lettore, curioso di sapere quale elemento nella vita, ma anche nella testa, di Ben lo abbia indotto a trasgredire. Il padre è stato molto attento a trasmettere al figlio i valori necessari per vivere in comunità; addirittura non consuma alcoolici in casa per non tentarlo. Avviene lo strappo e gli eventi delittuosi (furto, omicidio, rapina) dei quali Ben si macchia, sconvolgono la mente di Dave e ci portano a riflettere quanto effettivamente possiamo dire di conoscere una persona a noi cara, addirittura sangue del nostro sangue. La presunzione di affermare “Conosco tutto di te” è ridotta in pezzi da questa storia, così come la giustificazione di una qualche forma di pazzia a spiegare ciò che ci sorprende e che è fuori da ogni logica. Spesso non c’è un motivo che renda intellegibile ciò che è difficile da comprendere e accettare. È così e bisogna venire a patti con la realtà per quanto scomoda possa essere.

Altro elemento su cui soffermarsi è la caratterizzazione del giornalismo, sempre quello anche dopo più di sessanta anni dalla pubblicazione del romanzo. L’affannosa ricerca dello scoop, di qualcosa di sordido che possa incuriosire il lettore, calpestando la rispettabilità dei protagonisti della notizia da sbattere in prima pagina, è rimasta immutabile nel tempo. In questo senso è un lavoro routinario, non scalfito dalle emozioni, una gara a pubblicare gli elementi più sensazionali, senza restarne coinvolti. Negli anni 50 la radio, la televisione e i giornali si facevano guerra con le ultime notizie. La rete sarebbe nata quindici anni dopo, rendendo tutto delirante e spesso poco etico.

Il finale del romanzo sembra contraddire l’appartenenza al genere giallo e in molte recensioni dei lettori si capisce la delusione di chi si aspettava la sorpresa, senza accorgersi che è proprio questa conclusione il vero colpo di scena, il sovvertimento inaspettato, la rottura di uno stereotipo.


 

lunedì 23 novembre 2020

L'uomo autentico

Mi è capitato spesso di comprare un libro sulla scia delle recensioni e dei commenti entusiastici in rete. È stato così per “L’amica geniale”, “Il commesso”, “Stoner”, ma non era mai accaduto di farlo per un libro disprezzato da molti per il linguaggio crudo, quasi osceno. Ho rischiato, ma l’introduzione di Stephen King era la garanzia che non sarei rimasta delusa.

Non mi piacciono le situazioni di sesso fini a se stesse, né tantomeno il linguaggio finto-sboccato, inseriti nel romanzo per rispettare il principio che un libro che si vende deve avere le tre S: Sesso, Sangue, Soldi. Recentemente ne ho letto uno, che ho comunque apprezzato, nel quale la scandalosità del linguaggio e delle situazioni erano false e, perciò, fastidiose e inutili. E non c’è niente di peggio dell’assenza di autenticità, soprattutto (e paradossalmente) nella finzione.

L’uomo autentico è un capolavoro perché aderente alla realtà descritta: una cittadina americana, gente comune, il “Top of the World” - locale alla periferia di Pasadena, luogo di ritrovo dopo il lavoro e una seconda casa negli anni della pensione. Il protagonista Herman Marshall, non è solo un uomo semplice, è autentico nelle emozioni, nella disillusione, nelle scelte, nella determinazione di fare ciò che si deve. È stato così in guerra, quando ha dovuto uccidere tanti “Nazi”, è stato così in famiglia accudendo la moglie malata di cancro fino alla fine, è stato così nelle soste dei lunghi viaggi con il camion dove è naturale che un vero uomo faccia sesso con generiche e svariate donne. Herman è il più autentico tra gli autentici, anche per il labbro inferiore “da negro”, motivo di dileggio tra i coetanei e di fascino tra le donne. È l’uomo che accetta di fare il suo dovere perché così è generalmente stabilito, è uno che sopporta la fatica, il dolore, ogni tipo di frustrazione. È uno con i propri scheletri nell’armadio, un uomo pieno di contraddizioni che lo logorano giorno dopo giorno.

E poi c’è la vecchiaia carogna, con tutti quegli acciacchi che, lentamente, consumano la dignità della persona. La solitudine incombe, il futuro è solo una parola nel vocabolario. L’uomo autentico deve porre fine alle ingiustizie subite, chiudere i conti con la vita. Se il libro scorre veloce per gran parte della narrazione, il finale viaggia a velocità supersonica con un’esplosione di vitalità che sembra una bestemmia per ciò che accade. Il suo sorriso autentico è l’ultima immagine che chiude la storia.


 

 

 

 

martedì 17 novembre 2020

L'avventura di un povero cristiano

 La Maiella è il Libano di noi abruzzesi. I suoi contrafforti sono le sue grotte i suoi valichi sono carichi di memorie. Negli stessi luoghi dove un tempo, come in una Tebaide, vissero innumerevoli eremiti, in epoca più recente sono stati nascosti centinaia e centinaia di fuorilegge, di prigionieri di guerra evasi, di partigiani, assistiti da gran parte della popolazione.

Sono illuminanti le prime pagine del libro di Ignazio Silone “L’avventura di un povero cristiano”, pubblicato nel marzo del 1968, e adattato per il teatro pochi mesi dopo, vincitore del Premio Campiello.

Questa regione che, per l’asprezza dei suoi valichi di accesso e il carattere chiuso degli abitanti, è sempre stata di difficile penetrazione a nuove credenze, fu invece tra le prime ad aprirsi al Cristianesimo, dando vita a gruppi cenobitici e figure di grande rilievo spirituale quale fra Pietro Angelerio, futuro Celestino V.

Il libro ripercorre tutta la vicenda che ha per protagonista fra Pietro, eremita del Morrone, un cristiano al di sopra delle beghe dei vari Orsini e Colonna che hanno avuto tanto potere per gli uomini indirizzati alla vita consacrata. Alla morte di Niccolò IV, il conclave durò ventisette mesi, sia per i contrasti in seno alla Chiesa, che per un’epidemia di peste che ne causò lo scioglimento. La disputa tra gli Orsini e i Colonna sembrava non avere fine, e così, su consiglio di Carlo II d’Angiò, si decise di scegliere un uomo super partes eleggendo all’unanimità fra Pietro, primo nella storia non porporato.

Egli è un cristiano che ha avuto la grazia di due vocazioni, e tutte e due di una forza eccezionale, direi quasi irresistibile: quella dell’eremita e quella del pastore. È indubbio che su queste basi il suo pontificato non potesse essere semplice, sollecitato da un lato dal re e dall’altro dalla Chiesa che mostra il suo lato più terreno e corrotto nella figura del cardinale Caetani, che poi diventerà il suo successore, Bonifacio VIII.

L’intera esistenza di un cristiano ha appunto questo scopo: diventare semplice […] Il Cristianesimo, infatti, non è un modo di dire, ma un modo di vivere. Il pio, semplice eremita, che conosce del latino solo ciò che è limitato alla Messa e alle Sacre Scritture, diventa una spina nel fianco dei porporati; non appone alcuna firma se prima non ha letto e compreso quanto è scritto, se non ha avuto un colloquio diretto con le parti in causa, perché ogni buon pastore conosce le sue pecorelle, se tutto ciò che gli viene presentato non è aderente ai principi che ispirarono San Francesco. E come il poverello di Assisi, il “matto” che aveva rinunciato ad ogni bene materiale e che parlava con gli animali, anche Celestino viene sottoposto a pressioni psicologiche tali da indurlo ad abdicare per rimanere fedele al Cristianesimo di Gesù.

Fu l’inizio della fine. Il nuovo Papa diede ordine di controllarlo per evitare che venisse rapito dagli uomini del re. Venuto a conoscenza di questa decisione, fra Pietro tentò di scappare in Grecia ma venne catturato e rinchiuso nella torre di Fumone.

“Le celle dei prigionieri hanno appena la grandezza di una tomba, vi si entra carponi e non hanno finestre”

“Dimmi, che ne faranno? Cosa pensi?”

“È probabile che torneranno di nuovo a offrirgli un compromesso. Non c’è dubbio che lui lo rifiuterà. E allora temo che l’uccideranno…E poi, e poi lo faranno santo. Non cerchiamo di capire. Il destino di certi santi, da vivi, è tra i misteri più oscuri della Chiesa”

E a questo punto, non può che chiudersi il sipario.


 

giovedì 5 novembre 2020

Due vite

I libri chiamano. Possono stare mesi, se non anni, ben allineati sullo scaffale di una libreria. Improvvisamente sovviene un pensiero, il ricordo di aver comprato un libro su consiglio di un’amica durante uno dei viaggi. Il titolo è ormai sprofondato nell’oblio, non la copertina che viene in mente in alcune caratteristiche distintive: il colore e la presenza di una foto in bianco e nero.

“Due vite” è un racconto in prima persona di uno psichiatra con un passato, ma anche un presente più o meno controllato farmacologicamente, di psicosi delirante. Il libro è inizialmente un viaggio nella memoria come anticamera a quello della malattia mentale.

L’esperienza schizofrenica è un vissuto sublime di identificazione con l’universo che è in te e vive per te. Fascino di un’esperienza in cui l’individuo tocca vette cosmiche di ineffabile gioia e di terribile sofferenza. È difficile ritornare da una dimensione universale di un mondo senza confini, in un mondo limitato e circoscritto. È il fascino dell’infinito, dell’eterno che non è dato agognare nei comuni individui. Se tu vuoi, la pioggia si trasforma in una cascata di sole, un’atmosfera piatta di bonaccia in un vento foriero di tempesta, un tenero affetto in una violenta passione

È lo scritto di un malato che il protagonista trova tra le pagine dell’Elogio della Follia e che è il vero senso, non solo del romanzo, ma dell’esperienza schizofrenica, sia diretta che vissuta di riflesso. L’insicurezza caratteriale, le pressanti aspettative dei genitori, la loro anaffettività, la non accettazione del suo aspetto fisico, causa di bullismo, sono le molle che catapultano il protagonista nel delirio come unico modo per superare le difficoltà e vivere la vita a lui imposta dal padre.

Ero annoiato e avevo la libertà assoluta di fuggire la realtà grigia di quel luogo attivando le mie salvifiche farneticazioni; non mi lasciai sfuggire l’occasione

La schizofrenia attivata da situazioni paradossali o comunque difficili da sostenere emotivamente. È questo un aspetto da considerare in presenza di disabilità mentale. Non tutto il male viene per nuocere anche se è la dose che fa il veleno. In mia figlia, la fuga dalla realtà è stato un modo per superare i problemi adolescenziali e che io stessa ho usato come sistema pedagogico. L’amico immaginario con il quale parlare è stato un surrogato per molti. La consapevolezza dei propri limiti, il mancato riconoscimento da parte degli altri, l’incapacità ad essere indipendente sono la causa della sua dissociazione schizofrenica, sempre più invasiva, dalla quale le risulta difficile affrancarsi, proprio a causa dei suoi limiti mentali.

Non ero destinato ad avere pace perché quando scendevo dal trono di super uomo in cui mi collocava la pazzia e tornavo, in seguito a guarigione, a immettermi nel mondo degli altri e dei loro affetti, vivevo una sensazione di depressione per la perdita di quello che era per me contemporaneamente inferno e paradiso perduto

È un circolo vizioso che si innesca che, se da un lato gratifica, dall’altro esaurisce ogni risorsa psichica, fagocita il quotidiano, avvelena le relazioni, condanna alla solitudine. Il delirio schizofrenico divora gli spazi, ha bisogno di luoghi nei quali muoversi. Da qui la contrapposizione tra ospedale psichiatrico e manicomio.

Approdai successivamente nei reparti ospedalieri, che mi sembravano subito angusti e soffocanti, limitanti la sensazione di maggiore libertà che nasceva in manicomio dalla notevole disponibilità di spazio, grande contenitore in cui avevano modo di diluirsi le mie angosce

È inevitabile la riflessione di cosa la legge Basaglia avrebbe dovuto portare. Aprire le porte del manicomio doveva consentire ai malati cronici, controllati dalla terapia farmacologica, di sperimentare la vita con il sostegno dei servizi territoriali nel ruolo di facilitatori di opportunità di impiego e di incontri relazionali. Nella realtà i malati psichiatrici sono stati abbandonati al loro destino, in carico a famiglie sempre più prosciugate di risorse psichiche ed economiche. Il ritornello è sempre uguale: mancano le figure professionali e i soldi per progetti di vita indipendente.

È una spirale che inevitabilmente ci risucchierà tutti. Quando capiterà non lo sappiamo. È sufficiente un elemento esterno, non prevedibile, né controllabile per gettarci in un’apocalisse sociale. Qualcosa tipo una pandemia.