Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

giovedì 25 febbraio 2021

Il fiore rosso

Scritto nel 1882 e pubblicato un anno dopo, Il fiore rosso è il racconto più importante di Vsevolod Michajlovič Garšin (1855 – 1888). L’immagine di apertura è l’ingresso di un malato nell’ospedale psichiatrico «In nome di Sua Maestà Imperiale, l’Imperatore Pietro I, dichiaro aperta l’ispezione di questo manicomio!» La sua voce è forte, chiara, penetrante e chi legge non può fare a meno di sorridere. D’altronde, nell’immaginario collettivo, l’azione del folle è spesso motivo di ilarità perché diretta, senza l’intermediazione delle norme condivise di comportamento. E quanti di noi, in particolari circostanze, non ha pensato per un momento di “dare di matto” come unico modo per affermare i propri diritti.

«Portatelo in reparto, a destra»

«Lo so, lo so. Sono già stato qui con voi l’anno scorso. Stavamo ispezionando l’ospedale. So tutto e mi sarà difficile imbrogliare» disse il malato

Queste prime battute lasciano poi il posto ad un senso di angoscia crescente che deflagra nel finale. Chi accompagna il malato è stremato, a malapena si regge in piedi. Notti insonni e giorni altrettanto faticosi per controllare l’estrema agitazione, finché il malato viene costretto nella camicia di forza.

Il manicomio ha un reparto maschile e uno femminile, ci sono due stanze riservate agli agitati: una con i materassi al muro, l’altra con le pareti di legno. La struttura pensata per ottanta persone, alla fine arriva ad ospitarne trecento. Nelle minuscole stanzucce, si trovavano quattro o cinque letti e, d’inverno, quando ai malati non era consentito uscire in giardino e le finestre, dietro le inferriate, erano sprangate, l’aria diventava tremendamente viziata. Il malato viene portato nel bagno. La stanza è anche peggio delle altre per la sporcizia sul pavimento, la scarsa luce e la presenza di due buche ovali per il lavaggio dei ricoverati. Garšin sa perfettamente cosa raccontare perché Il fiore rosso trae spunto dalla sua esperienza. Di animo sensibile, lo scrittore venne turbato da due eventi: la separazione dei suoi genitori e la guerra contro i Turchi nei Balcani alla quale partecipò come volontario. Al ritorno da questa esperienza venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Garšin aveva paura che la malattia mentale lo privasse della sua capacità di scrivere, così importante per lui. In una lettera alla madre del 9 ottobre 1881 scrisse: Non posso fare affidamento sulla mia forza; non credo che sarò in grado di lavorare continuamente e con successo.

Quattro anni più tardi ammise in una lettera all’amico A. J. Gerd: Le mie ambizioni letterarie sono molto grandi. Quello che ho scritto ha avuto successo secondo me […] Sento che solo in questo campo lavorerò con tutte le mie forze; inoltre, la questione della mia abilità letteraria è per me una questione di vita o di morte. Non posso tornare indietro. Proprio come una voce dice ad Assuero “Va! Va!” così qualcosa mi mette una penna nelle mani e mi dice “Scrivi! Scrivi!”. Purtroppo, le frequenti crisi nervose lo privarono della capacità di scrivere per lunghi periodi di tempo, aggravando la depressione che lo spinse a buttarsi nella tromba delle scale della propria abitazione a San Pietroburgo.

Nel racconto, il giorno dopo il protagonista ha il colloquio con lo psichiatra e viene ufficialmente inserito nel manicomio. Durante il giorno, i malati sono impegnati in lavori di manutenzione del giardino che abbonda di fiori di ogni tipo e colore.

Qui, non lontano dalla veranda, crescevano tre piccoli papaveri di una specie particolare; erano molto più piccoli del normale e si distinguevano per il loro rosso vermiglio particolarmente intenso.

Egli ne rimane particolarmente colpito e immagina che essi siano portatori del male. Così decide di salvare l’Umanità andandoli a strappare. Concetto cardine de Il fiore rosso è la responsabilità individuale di fronte a situazioni sociali. Ognuno è custode del proprio fratello, chiamato a rispondere del disinteresse, colpevole di egoismo, malato di indolenza. Uomo è colui che persegue un obiettivo, che ha uno scopo nella vita, che comunque lascia un segno, un ricordo di sé agli altri. E così andare a prendere i tre papaveri diventa un’impresa eroica, oltre che epica.

Il primo fiore viene reciso facilmente perché nessuno si aspetta un atto del genere: i malati hanno il compito di curare le aiuole. Nessuno vide come lui scavalcò l’aiuola, strappò il fiore e come frettolosamente lo nascose sul petto sotto la camicia. Quando le foglie fresche e bagnate di rugiada toccarono il suo corpo, impallidì come un cadavere e pervaso dall’orrore spalancò gli occhi. Un sudore freddo gli bagnò la fronte. Le influenze venefiche cominciano a distruggere il suo corpo, compare la febbre, dorme pochissimo, cammina senza sosta, dimagrisce a vista d’occhio.

Dopo tre giorni, riesce a strappare il secondo fiore e a sfuggire al guardiano precipitandosi nella sua camera e nascondendo la pianta sul petto. La lotta immaginaria iniziò nuovamente. Il malato sentiva che dal fiore il male si snodava come lunghe serpi striscianti che lo avviluppavano, lo stringevano, gli schiacciavano le membra, gli impregnavano tutto il corpo col loro terribile contenuto.

Manca l’ultimo papavero, fiore del male, portatore di morte a causa del l’oppio. Il protagonista è debole, imbottito di farmaci e legato al letto. Raggiunge l’obiettivo superando enormi difficoltà come un supereroe. Guarda le stelle in cielo e ad esse dice di avere pazienza perché presto sarà con loro. Come arriva alla pianta, la strappa con le poche forze rimaste, la riduce in pezzetti, la calpesta e se la mette sul petto, là dove c’è il cuore. Torna in camera e, ormai privo di sensi, si butta sul letto.

Il mattino dopo lo trovarono morto. Il suo viso era tranquillo e felice; i lineamenti emaciati dalle labbra sottili e dagli occhi chiusi e infossati esprimevano come una gioia orgogliosa. Quando lo adagiarono sulla barella, tentarono di disserrare la mano per estrarre il fiore. Ma la mano si era irrigidita: si era portato il suo trofeo nella tomba.

Questo racconto pone due domande: i matti sono in grado di fare gesti eroici? La percezione del male può essere considerata un’allucinazione? È solo considerando l’uomo e non la malattia che siamo in grado di rispondere con verità.


 

sabato 13 febbraio 2021

Il prete bello

Già dalle prime pagine mi sono chiesta: “Come ho fatto a non leggerlo prima?” Mi sono sentita l’ultima tra i lettori per essermi lasciata sfuggire questo capolavoro.

Ho sempre letto tanto, fin da bambina, poi ho avuto un periodo buio durante l’università e i primi anni di professione, nei quali altri problemi hanno riempito le mie giornate. Sto recuperando il tempo perduto e questo romanzo mi ha conquistata per la scrittura apparentemente facile, leggera, ma non c’è niente di più complicato che scrivere così. Non è da tutti, solo da grandi scrittori.

La storia si svolge in un rione vicentino dove vivono diverse famiglie e che fa parte della parrocchia di Don Gastone, avvenente e atletico uomo di chiesa, cappellano militare nell’esercito fascista, mandato a combattere in Spagna a sostegno della falange franchista; di questa esperienza scrive un libro che viene venduto nella parrocchia, comprato e diffuso capillarmente tra le donne, tutte innamorate e gelose di lui. Don Gastone è consapevole del suo fascino e lo utilizza per proprio tornaconto, ma anche per alleviare le gravi condizioni economiche di alcune famiglie del rione.

Riesce ad aiutare Sergio, un bambino di nove anni, figlio di nn, che vive con il nonno in estrema povertà. Accanto a lui, c’è l’amico Cena, compagno e complice di mille scorribande. La sua famiglia è composta dalla madre alcolizzata, da due fratelli dediti al furto e al piccolo crimine, e da uno zio – detto il Ragioniere – che entra ed esce di galera. Personaggio divertente è il cav. Esposito, vedovo con due figlie in età da marito, che tiene segregate in casa, proprietario di un bagno personale che offre solo agli ospiti importanti.

La bellezza del romanzo è nella caratterizzazione dei personaggi, espressione dell’Italia del dopoguerra e che, tutto sommato, non è poi così diversa da quella attuale; nella scrittura che scorre leggera e che tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina.

Non è mai troppo tardi, c’è sempre tempo per godere della buona letteratura. I libri chiamano dagli scaffali dei negozi, dalle pagine dei social, dalle recensioni in rete; alcuni piombano improvvisamente nella nostra vita, quasi caduti dal Cielo. È inutile capire il perché. Si apre si inizia a leggere.


 


 

lunedì 8 febbraio 2021

Morire

La trama si può riassumere in poche stringate parole: un uomo muore. Felix, il protagonista del romanzo breve, viene a sapere da un professore da lui contattato per una second opinion, che morirà entro un anno. La sua malattia non viene mai nominata ma si presume che si tratti di tubercolosi, che all’epoca era incurabile.

A dividerne il dolore è la fidanzata Maria, una ragazza molto più giovane di lui, che inizialmente ne rimane sconvolta, allontanando tale triste eventualità con la passione tipica della giovinezza. Sarebbe morta con lui, incapace di una vita senza amore. Terzo protagonista è Alfred, l’amico medico che gli ha nascosto la verità circa la malattia. Felix e Maria viaggiano per pochi mesi allo scopo di allontanare il pensiero della morte, andando alla casa sul lago, e poi a Salisburgo mentre sono di ritorno a Vienna.

Il motivo per il quale una storia così semplice risulti tanto avvincente è dato dalla descrizione degli stati d’animo dei due amanti. Felix gioca molto sulla sua maggiore esperienza per legare indissolubilmente a sé la giovane Maria, per la quale la tragedia è perdere ciò che considera il vero ed unico amore. Con il passare del tempo, ed anche per il pedante vittimismo di Felix, la ragazza comincia a ricercare momenti di solitudine nei quali riprendere contatto con se stessa e la vita che la circonda. Bellissimo è il flusso di coscienza che Schnitzler descrive associandolo alle immagini della natura: albe intervallate da tramonti, chiarore ed oscurità, distese di acqua e fitta vegetazione.

L’autocommiserazione di Felix si trasforma in invidia per la salute e la giovinezza di Maria, e in gelosia per chi avrà il suo amore alla sua morte. Sogna di ucciderla e in un’occasione tenta di farlo. Per un breve periodo i due amanti sembrano ritrovare la vecchia passione, ma è di breve durata. Maria, dall’inizio crocerossina devota, decide di approfittare del sonno di Felix per andare a fare una lunga passeggiata, spingendosi lontana da lui. È l’inizio della sua progressiva emancipazione emotiva. La malattia ha una brusca accelerazione, l’emottisi ne è il segno evidente. Il melodramma si conclude nell’unico modo possibile per il protagonista.

“Morire” fu pubblicato nel 1895, quando Schnitzler aveva 33 anni e da dieci anni era laureato in medicina. È un libro che dovrebbe essere letto da ogni medico, soprattutto da quelli che trattano le malattie terminali perché racconta di più e meglio di quanto facciano i trattati di clinica.