Dal 2012, anno in cui è uscito il primo libro sull’autismo,
diventato in breve un best seller, si può affermare che è aumentata l’attenzione
al problema così come la pubblicazione di libri che trattano dell’argomento da
parte di tutte le maggiori case editrici italiane.
Questo di Marina Viola è l’ennesimo, un racconto che è
vero, emozionante senza essere sdolcinato. Come in pochi altri casi, viene
narrato il quotidiano fatto di incertezze, malinconia, rabbia, frustrazione,
angoscia, allegria, amore, serenità. È normale che sia così perché una madre è
prima di tutto un essere umano che deve superare un doppio ostacolo
psicologico. La nascita di un figlio disabile e il senso di colpa per averlo
generato. Può essere perché quel giorno sono andata in ospedale e sono passata
per la radiologia? Può essere perché quella volta mi sono così tanto
arrabbiata? Queste e altre domande frullano nella testa ma un figlio disabile è
un figlio, è lo stesso che abbiamo amato
dal primo momento, prima di sapere tutto questo. Lui non è cambiato: siamo noi
che abbiamo cambiato il nostro modo di vederlo.
Una riflessione, in apparenza scontata, ma che si scontra
con una realtà - spesso familiare – in cui il figlio mantiene tutte le
connotazioni patologiche diventando solo una malattia con le gambe. Andare
oltre tutto questo e adoperarsi per progettare un percorso che corrisponda alle
caratteristiche e predisposizioni del proprio figlio significa gratificarlo e
renderlo felice. Non deve sembrare strano, né tantomeno straordinario perché
non è quello che ogni genitore fa per il proprio figlio?
L’autrice affronta nel libro un aspetto importante: la vulnerabilità.
È l’aspetto più spaventoso della vita
delle persone autistiche in quanto, visto che non sono in grado di parlare, di
scappare o di denunciare, sono alla mercé delle buone o cattive intenzioni di
chi si occupa di loro. A questo aggiungerei anche l’assurdità di non essere
ascoltate e capite. Nel momento in cui è attestata la loro invalidità,
scompaiono agli occhi della giustizia e qualsiasi fatto increscioso che venga raccontato
alla loro maniera (abusi, maltrattamenti, violenza fisica) è sottovalutato,
come se la cronaca non avesse mai riportato casi di violenza domestica o
scolastica.
Sarà veramente accaduto? Non sarà frutto di
allucinazione? Si dà per scontato che non dicano la verità perché malati.
Invece quelli che si trovano dall’altra parte della barricata, cioè i sani,
sono per definizione veritieri, cristallini, al di sopra di ogni sospetto. Per
loro forse non basterà appendere al collo una macina girata da un mulo e essere
gettati negli abissi del mare.
Nel libro si parla di scuola, di quella scuola che io
auspico possa esserci anche in Italia, ossia attenta ai bisogni reali, che
progetti un percorso sensato che renda l’alunno disabile più autonomo e sicuro
di sé, che abbia tanti laboratori propedeutici al possibile inserimento
lavorativo, così come pensato da Maria Montessori.
Sogno una scuola che consideri l’alunno disabile e non
faccia dell’inclusione solo una parola da aggiungere al vocabolario. E dopo la
scuola sogno dei centri diurni che non siano un parcheggio in cui la giornata è
scandita da merenda, pranzo e qualche altra cosa perché la vita di ogni essere
umano non può essere ridotta a questo.
Sogno che, come è stato possibile vedere un uomo di
colore diventare presidente degli Stati Uniti, sarà possibile per i nostri
figli vivere una vita dignitosa, felice e appagante.
Quante belle riflessioni alla lettura di questo romanzo,
come se avessi di fronte a me l’autrice e potessimo chiacchierare di tante cose
sorseggiando un caffè. Ho ritrovato pensieri che sono stati i miei e la
determinazione di andare avanti sempre e comunque. È un libro vero, senza le
inutili mielosità delle mamme votate al sacrificio proprio perché quel figlio è
un figlio. E basta.
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