Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

lunedì 14 dicembre 2020

Due racconti di Arthur Schnitzler

Una persona muore quando sono morti quelli che l’hanno conosciuta (Arthur Schnitzler)

Due racconti uniti in un libro, edito da Libreria dell’Orso, sufficientemente piccolo da essere messo nella tasca di un cappotto o in borsetta. Sono quei libri che porto con me perché le attese prima di un appuntamento non siano vuote, prive di significato.

Fiori è un racconto ambientato a Vienna. Il protagonista è un uomo borghese, fidanzato con Gretel, una giovane piena di vita e di amore, l’unica ad avere un nome che la identifica. “Oggi sei finalmente di nuovo mio” – esclama con rinnovata gioia e tutto intorno, sebbene coperto di neve, sembra riprendere vita. L’uomo è reduce da una delusione d’amore, da un tradimento che l’ha così colpito nel suo orgoglio di maschio da allontanare la donna che amava, senza possibilità di perdono. Nonostante tutto, lei si fa trovare per strada, vicino a dove lui abita, ad attenderlo, solo per vederlo, senza dire una parola. Parlano per lei i fiori che ogni mese gli invia: un mazzo di violette e garofani.

Un giorno incontra per caso il nonno della donna che gli dice che è morta. Di cosa soffriva?...«Depressione…anemia…i dottori non sanno nulla di certo» La notizia lo colpisce ma sembra anche risollevarlo. Il mondo oggi mi appariva più quieto. La morte pone fine allo stillicidio emotivo degli incontri silenziosi, ma carichi di significato, all’angolo della strada. Il momento è di breve durata e tutto precipita quando, dopo alcuni giorni, gli vengono recapitati i fiori dentro una scatola bianca, così simile ad una bara. È indubbio che lei ne aveva programmato l’invio. Li mette in un vaso sul suo tavolo e rimangono là a rinnovare il rimorso e il senso di colpa. Tutto intorno sembra scomparire travolto dal profumo che emanano anche quando iniziano a sfiorire e a diventare l’ombra di loro stessi.

È un circolo vizioso nel quale è facile restare intrappolati se non ci fosse il gesto salvifico di Gretel che apre la finestra e butta fuori gli steli rinsecchiti e maleodoranti. L’uomo si sente libero, vivo, vitale; tutto intorno risplende e profuma dei lillà del parco vicino. Gretel si avvicina, prende il suo piccolo mazzo di fiori e me lo tiene davanti al viso. La vita continua.

I morti tacciono è un racconto scritto nel 1897 e l’ambientazione è assolutamente attinente con le carrozze e i primi treni. Si parla di una relazione clandestina tra Emma, una donna sposata con figlio, e Franz. I due si incontrano dopo qualche giorno, l’ultima volta è stata a casa di lei durante una festa, costretti ad un comportamento borghese ed impersonale. Il cocchiere che è alla guida della carrozza di Franz è ubriaco; la donna era in ritardo e lui, nell’attesa, era entrato in un’osteria. La carrozza ha un incidente, ne escono illesi Emma e il cocchiere. Franz è morto ma il primo impulso della donna è di salvarlo, nonostante l’evidenza. Chiede al cocchiere di andare a cercare aiuto mentre lei sarebbe rimasta ad attenderlo, con il capo dell’uomo sul suo grembo. Rimasta da sola, al buio, sul ciglio della strada, comincia a pensare a quello che sarebbe successo all’arrivo dei soccorsi. Chi muore giace, chi vive si dà pace. L’amore viene spazzato via dalla morte e le convenzioni sociali riprendono il sopravvento. Emma abbandona il corpo dell’amante e ritorna a casa prima dell’arrivo del marito ricoprendo nuovamente il ruolo di moglie e madre esemplare. La notte riporta a galla il subconscio e lei sarà costretta ad affrontare la realtà e prendersi carico delle responsabilità, non solo nei riguardi del marito, ma anche dell’amore.


 

 

lunedì 30 novembre 2020

L'orologiaio di Everton

I libri di Simenon rappresentano per me lo svago tra un romanzo e l’altro, sono una ventata di aria fresca, un intervallo piacevole perché quando la scrittura è di alto livello, le parole e le situazioni narrate si susseguono senza intoppi, nessun rallentamento o elemento disturbante che induca il lettore a fermarsi e andare qualche pagina indietro per riannodare un filo che si è spezzato.

L’orologiaio di Everton, pubblicato nel 1954, è un romanzo giallo, pur non sembrando, con tutti gli elementi caratterizzanti: la suspence, il coinvolgimento, la sorpresa, il colpo di scena. Tutto è intriso di normalità, della monotonia di una vita scandita da azioni, sempre quelle. Il protagonista, Dave Galloway, orologiaio di professione, vive con il figlio Ben, un bravo ragazzo, all’apparenza timido, di poche parole. La moglie lo ha abbandonato quando il figlio aveva solo sei mesi e lui è andato avanti meglio che poteva. La sua vita è lo specchio fedele della frase “essere tutto casa e bottega”, dal momento che il negozio è sotto l’appartamento, e lui si concede poche distrazioni giornaliere, tranne il sabato che trascorre con l’amico Musak a guardare la partita di baseball dal giardino e a giocare a Jacquet (variante del backgammon).

Nonostante tutto sembri assolutamente piatto, si percepisce che qualcosa succederà, la suspence tiene incollato il lettore, curioso di sapere quale elemento nella vita, ma anche nella testa, di Ben lo abbia indotto a trasgredire. Il padre è stato molto attento a trasmettere al figlio i valori necessari per vivere in comunità; addirittura non consuma alcoolici in casa per non tentarlo. Avviene lo strappo e gli eventi delittuosi (furto, omicidio, rapina) dei quali Ben si macchia, sconvolgono la mente di Dave e ci portano a riflettere quanto effettivamente possiamo dire di conoscere una persona a noi cara, addirittura sangue del nostro sangue. La presunzione di affermare “Conosco tutto di te” è ridotta in pezzi da questa storia, così come la giustificazione di una qualche forma di pazzia a spiegare ciò che ci sorprende e che è fuori da ogni logica. Spesso non c’è un motivo che renda intellegibile ciò che è difficile da comprendere e accettare. È così e bisogna venire a patti con la realtà per quanto scomoda possa essere.

Altro elemento su cui soffermarsi è la caratterizzazione del giornalismo, sempre quello anche dopo più di sessanta anni dalla pubblicazione del romanzo. L’affannosa ricerca dello scoop, di qualcosa di sordido che possa incuriosire il lettore, calpestando la rispettabilità dei protagonisti della notizia da sbattere in prima pagina, è rimasta immutabile nel tempo. In questo senso è un lavoro routinario, non scalfito dalle emozioni, una gara a pubblicare gli elementi più sensazionali, senza restarne coinvolti. Negli anni 50 la radio, la televisione e i giornali si facevano guerra con le ultime notizie. La rete sarebbe nata quindici anni dopo, rendendo tutto delirante e spesso poco etico.

Il finale del romanzo sembra contraddire l’appartenenza al genere giallo e in molte recensioni dei lettori si capisce la delusione di chi si aspettava la sorpresa, senza accorgersi che è proprio questa conclusione il vero colpo di scena, il sovvertimento inaspettato, la rottura di uno stereotipo.


 

lunedì 23 novembre 2020

L'uomo autentico

Mi è capitato spesso di comprare un libro sulla scia delle recensioni e dei commenti entusiastici in rete. È stato così per “L’amica geniale”, “Il commesso”, “Stoner”, ma non era mai accaduto di farlo per un libro disprezzato da molti per il linguaggio crudo, quasi osceno. Ho rischiato, ma l’introduzione di Stephen King era la garanzia che non sarei rimasta delusa.

Non mi piacciono le situazioni di sesso fini a se stesse, né tantomeno il linguaggio finto-sboccato, inseriti nel romanzo per rispettare il principio che un libro che si vende deve avere le tre S: Sesso, Sangue, Soldi. Recentemente ne ho letto uno, che ho comunque apprezzato, nel quale la scandalosità del linguaggio e delle situazioni erano false e, perciò, fastidiose e inutili. E non c’è niente di peggio dell’assenza di autenticità, soprattutto (e paradossalmente) nella finzione.

L’uomo autentico è un capolavoro perché aderente alla realtà descritta: una cittadina americana, gente comune, il “Top of the World” - locale alla periferia di Pasadena, luogo di ritrovo dopo il lavoro e una seconda casa negli anni della pensione. Il protagonista Herman Marshall, non è solo un uomo semplice, è autentico nelle emozioni, nella disillusione, nelle scelte, nella determinazione di fare ciò che si deve. È stato così in guerra, quando ha dovuto uccidere tanti “Nazi”, è stato così in famiglia accudendo la moglie malata di cancro fino alla fine, è stato così nelle soste dei lunghi viaggi con il camion dove è naturale che un vero uomo faccia sesso con generiche e svariate donne. Herman è il più autentico tra gli autentici, anche per il labbro inferiore “da negro”, motivo di dileggio tra i coetanei e di fascino tra le donne. È l’uomo che accetta di fare il suo dovere perché così è generalmente stabilito, è uno che sopporta la fatica, il dolore, ogni tipo di frustrazione. È uno con i propri scheletri nell’armadio, un uomo pieno di contraddizioni che lo logorano giorno dopo giorno.

E poi c’è la vecchiaia carogna, con tutti quegli acciacchi che, lentamente, consumano la dignità della persona. La solitudine incombe, il futuro è solo una parola nel vocabolario. L’uomo autentico deve porre fine alle ingiustizie subite, chiudere i conti con la vita. Se il libro scorre veloce per gran parte della narrazione, il finale viaggia a velocità supersonica con un’esplosione di vitalità che sembra una bestemmia per ciò che accade. Il suo sorriso autentico è l’ultima immagine che chiude la storia.


 

 

 

 

martedì 17 novembre 2020

L'avventura di un povero cristiano

 La Maiella è il Libano di noi abruzzesi. I suoi contrafforti sono le sue grotte i suoi valichi sono carichi di memorie. Negli stessi luoghi dove un tempo, come in una Tebaide, vissero innumerevoli eremiti, in epoca più recente sono stati nascosti centinaia e centinaia di fuorilegge, di prigionieri di guerra evasi, di partigiani, assistiti da gran parte della popolazione.

Sono illuminanti le prime pagine del libro di Ignazio Silone “L’avventura di un povero cristiano”, pubblicato nel marzo del 1968, e adattato per il teatro pochi mesi dopo, vincitore del Premio Campiello.

Questa regione che, per l’asprezza dei suoi valichi di accesso e il carattere chiuso degli abitanti, è sempre stata di difficile penetrazione a nuove credenze, fu invece tra le prime ad aprirsi al Cristianesimo, dando vita a gruppi cenobitici e figure di grande rilievo spirituale quale fra Pietro Angelerio, futuro Celestino V.

Il libro ripercorre tutta la vicenda che ha per protagonista fra Pietro, eremita del Morrone, un cristiano al di sopra delle beghe dei vari Orsini e Colonna che hanno avuto tanto potere per gli uomini indirizzati alla vita consacrata. Alla morte di Niccolò IV, il conclave durò ventisette mesi, sia per i contrasti in seno alla Chiesa, che per un’epidemia di peste che ne causò lo scioglimento. La disputa tra gli Orsini e i Colonna sembrava non avere fine, e così, su consiglio di Carlo II d’Angiò, si decise di scegliere un uomo super partes eleggendo all’unanimità fra Pietro, primo nella storia non porporato.

Egli è un cristiano che ha avuto la grazia di due vocazioni, e tutte e due di una forza eccezionale, direi quasi irresistibile: quella dell’eremita e quella del pastore. È indubbio che su queste basi il suo pontificato non potesse essere semplice, sollecitato da un lato dal re e dall’altro dalla Chiesa che mostra il suo lato più terreno e corrotto nella figura del cardinale Caetani, che poi diventerà il suo successore, Bonifacio VIII.

L’intera esistenza di un cristiano ha appunto questo scopo: diventare semplice […] Il Cristianesimo, infatti, non è un modo di dire, ma un modo di vivere. Il pio, semplice eremita, che conosce del latino solo ciò che è limitato alla Messa e alle Sacre Scritture, diventa una spina nel fianco dei porporati; non appone alcuna firma se prima non ha letto e compreso quanto è scritto, se non ha avuto un colloquio diretto con le parti in causa, perché ogni buon pastore conosce le sue pecorelle, se tutto ciò che gli viene presentato non è aderente ai principi che ispirarono San Francesco. E come il poverello di Assisi, il “matto” che aveva rinunciato ad ogni bene materiale e che parlava con gli animali, anche Celestino viene sottoposto a pressioni psicologiche tali da indurlo ad abdicare per rimanere fedele al Cristianesimo di Gesù.

Fu l’inizio della fine. Il nuovo Papa diede ordine di controllarlo per evitare che venisse rapito dagli uomini del re. Venuto a conoscenza di questa decisione, fra Pietro tentò di scappare in Grecia ma venne catturato e rinchiuso nella torre di Fumone.

“Le celle dei prigionieri hanno appena la grandezza di una tomba, vi si entra carponi e non hanno finestre”

“Dimmi, che ne faranno? Cosa pensi?”

“È probabile che torneranno di nuovo a offrirgli un compromesso. Non c’è dubbio che lui lo rifiuterà. E allora temo che l’uccideranno…E poi, e poi lo faranno santo. Non cerchiamo di capire. Il destino di certi santi, da vivi, è tra i misteri più oscuri della Chiesa”

E a questo punto, non può che chiudersi il sipario.


 

giovedì 5 novembre 2020

Due vite

I libri chiamano. Possono stare mesi, se non anni, ben allineati sullo scaffale di una libreria. Improvvisamente sovviene un pensiero, il ricordo di aver comprato un libro su consiglio di un’amica durante uno dei viaggi. Il titolo è ormai sprofondato nell’oblio, non la copertina che viene in mente in alcune caratteristiche distintive: il colore e la presenza di una foto in bianco e nero.

“Due vite” è un racconto in prima persona di uno psichiatra con un passato, ma anche un presente più o meno controllato farmacologicamente, di psicosi delirante. Il libro è inizialmente un viaggio nella memoria come anticamera a quello della malattia mentale.

L’esperienza schizofrenica è un vissuto sublime di identificazione con l’universo che è in te e vive per te. Fascino di un’esperienza in cui l’individuo tocca vette cosmiche di ineffabile gioia e di terribile sofferenza. È difficile ritornare da una dimensione universale di un mondo senza confini, in un mondo limitato e circoscritto. È il fascino dell’infinito, dell’eterno che non è dato agognare nei comuni individui. Se tu vuoi, la pioggia si trasforma in una cascata di sole, un’atmosfera piatta di bonaccia in un vento foriero di tempesta, un tenero affetto in una violenta passione

È lo scritto di un malato che il protagonista trova tra le pagine dell’Elogio della Follia e che è il vero senso, non solo del romanzo, ma dell’esperienza schizofrenica, sia diretta che vissuta di riflesso. L’insicurezza caratteriale, le pressanti aspettative dei genitori, la loro anaffettività, la non accettazione del suo aspetto fisico, causa di bullismo, sono le molle che catapultano il protagonista nel delirio come unico modo per superare le difficoltà e vivere la vita a lui imposta dal padre.

Ero annoiato e avevo la libertà assoluta di fuggire la realtà grigia di quel luogo attivando le mie salvifiche farneticazioni; non mi lasciai sfuggire l’occasione

La schizofrenia attivata da situazioni paradossali o comunque difficili da sostenere emotivamente. È questo un aspetto da considerare in presenza di disabilità mentale. Non tutto il male viene per nuocere anche se è la dose che fa il veleno. In mia figlia, la fuga dalla realtà è stato un modo per superare i problemi adolescenziali e che io stessa ho usato come sistema pedagogico. L’amico immaginario con il quale parlare è stato un surrogato per molti. La consapevolezza dei propri limiti, il mancato riconoscimento da parte degli altri, l’incapacità ad essere indipendente sono la causa della sua dissociazione schizofrenica, sempre più invasiva, dalla quale le risulta difficile affrancarsi, proprio a causa dei suoi limiti mentali.

Non ero destinato ad avere pace perché quando scendevo dal trono di super uomo in cui mi collocava la pazzia e tornavo, in seguito a guarigione, a immettermi nel mondo degli altri e dei loro affetti, vivevo una sensazione di depressione per la perdita di quello che era per me contemporaneamente inferno e paradiso perduto

È un circolo vizioso che si innesca che, se da un lato gratifica, dall’altro esaurisce ogni risorsa psichica, fagocita il quotidiano, avvelena le relazioni, condanna alla solitudine. Il delirio schizofrenico divora gli spazi, ha bisogno di luoghi nei quali muoversi. Da qui la contrapposizione tra ospedale psichiatrico e manicomio.

Approdai successivamente nei reparti ospedalieri, che mi sembravano subito angusti e soffocanti, limitanti la sensazione di maggiore libertà che nasceva in manicomio dalla notevole disponibilità di spazio, grande contenitore in cui avevano modo di diluirsi le mie angosce

È inevitabile la riflessione di cosa la legge Basaglia avrebbe dovuto portare. Aprire le porte del manicomio doveva consentire ai malati cronici, controllati dalla terapia farmacologica, di sperimentare la vita con il sostegno dei servizi territoriali nel ruolo di facilitatori di opportunità di impiego e di incontri relazionali. Nella realtà i malati psichiatrici sono stati abbandonati al loro destino, in carico a famiglie sempre più prosciugate di risorse psichiche ed economiche. Il ritornello è sempre uguale: mancano le figure professionali e i soldi per progetti di vita indipendente.

È una spirale che inevitabilmente ci risucchierà tutti. Quando capiterà non lo sappiamo. È sufficiente un elemento esterno, non prevedibile, né controllabile per gettarci in un’apocalisse sociale. Qualcosa tipo una pandemia.


 

venerdì 30 ottobre 2020

L'amore che chiama

 Il libro della Madre Anna Maria Cànopi si colloca a pieno diritto in questo blog, anche se chiamarlo tuttaltrolibro risulta riduttivo, se non irriverente. “L’amore che chiama”, soprattutto nel suo sottotitolo “Vocazione e vita monastica” può indurre a un giudizio superficiale, come se le 200 pagine che lo compongono, descrivessero una realtà così lontana dalla laicità. Al contrario, perché gli spunti forniti sono universali.

Ci sono parole che risuonano frequentemente in questo discorso intimo, così denso di significati. La prima è gratuità, una parola che ritorna spesso negli scritti della Madre. La gratuità è ben altra cosa dal gratis odierno, che di solito spinge orde di consumatori all’accaparramento, al di là dell’effettiva necessità, unicamente perché non ha costo, perché è regalato. La gratuità è una caratteristica dei beni relazionali, nel senso che un bene è relazionale quando la relazione non viene usata per altro scopo, ma viene vissuta in quanto bene in sé. Martha Nussbaum afferma che il bene relazionale è un bene dove la relazione è il bene, una relazione che non è incontro di interessi, ma un incontro di gratuità. La gratuità è madre, figlia, sorella dell’arte del dono che altro non è che una apertura incondizionata, un fluire all’esterno. C’è una sorta di legge sociale che fa si che ciò che non circola muore, come avviene per il lago Tiberiade e il Mar Morto. Formati dallo stesso fiume – il Giordano – il primo dà acqua ad altri fiumi, mentre il secondo la tiene tutta per sé (Jacques T. Godbout).

In questa società è possibile il dono? È possibile donare senza pretendere una contropartita? Ma soprattutto, viene trasmessa ai nostri figli l’attenzione al dono e l’azione del donare come atto autentico di umanizzazione? Attualmente il dono ha perso il suo significato diventando espressione di status sociale e, sottilmente, un modo per controllare l’altro al quale abbiamo sbattuto in faccia la nostra presunta superiorità. Il dono è anche spesso banalizzato, ridotto ad un sms, cosiddetto solidale, con il quale si partecipa alle difficoltà dell’altro con il minimo del tempo e dell’impegno.

Sobrietà è un’altra parola che riluce nel libro. È una virtù desueta quella del saper fare a meno, nel non eccedere, nel controllare la bulimia che ha contaminato ogni atto del quotidiano. Essere sobri nei comportamenti, nelle parole che devono essere poche, vere e significanti. Da qui il silenzio, l’ascolto dell’altro. Siamo invece tentati a riempire il silenzio di parole, una cacofonia snervante che alla lunga indebolisce, ammala. Quando si sperimenta il silenzio, diventa difficile farne a meno. È la condizione, prima dell’animo e poi del corpo, che si avvicina molto alla serenità, alla felicità. Ho avuto la fortuna di trascorrere alcuni giorni in un monastero benedettino di suore di clausura, condividendo il loro quotidiano fatto di lavoro, preghiera, silenzio, refezione, riposo. Nessun cellulare, né televisore, né radio, solo un silenzio fatto di rispetto; le parole non sono urlate, non ce ne è bisogno: dopo qualche ora nel monastero l’udito diventa bionico e ogni altro suono è apprezzato nella sua interezza. Ricordo lo sciacquio delle onde del lago, il cinguettare degli uccelli, il passo leggero delle suore nei lunghi corridoi, la pioggerella sottile che batteva sul selciato del paese. Il silenzio è significante e significativo; è mettersi in ascolto di noi stessi, prendersi cura di sé; è accoglienza, non ci sono parole che respingono con la loro presenza.

Andare avanti è un altro aspetto che ritorna spesso nel libro, come una sfida alla quale siamo chiamati costantemente. Sembrerebbe più semplice fermarsi e magari tornare indietro verso una comfort zone. La progressione è coraggio, responsabilità verso noi stessi e gli altri. Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio (Lc 9, 62). Il cammino percorso non è vano, è quello che ci ha portati dove ci troviamo; abbiamo superato ostacoli, rallentato, siamo stati i nostri passi. La strada ancora da fare non potrà essere diversa da quella già percorsa ed è proprio per questo che non bisogna avere paura.



 


mercoledì 21 ottobre 2020

I quasi adatti

“I quasi adatti” di Peter Høeg non è un libro facile sia per chi lo legge e forse anche per chi lo ha scritto. La narrazione è un flusso di percezioni e ricordi che non tiene conto del tempo e che spesso costringe il lettore a tornare indietro con le pagine per riannodare fili apparentemente disordinati.

Il racconto è in parte autobiografico a partire proprio dal nome del protagonista, Peter, un bambino “quasi adatto”, per non dire disadattato, che frequenta una scuola speciale dove viene attuato un programma che dovrebbe reinserirlo nella società. Il condizionale è d’obbligo perché presto si capisce che i metodi educativi usati sono tutt’altro che leciti. Peter stringe amicizia con Katarina e August, un ragazzo autistico con un passato di violenze in famiglia.

Ciò che colpisce di tutto il romanzo è la dissertazione filosofica sul tempo che indubbiamente rende molto difficoltosa la lettura, ma che induce ad una riflessione proprio sulla neurodiversità e il rapporto con il tempo. Ci si rende conto del tempo, quando diventa un problema. E questo è tanto più valido per la persona autistica che per la neurotipica. Il tempo è un aspetto dell’esperienza umana ed è così importante per la comprensione del mondo che è difficile immaginarlo senza di esso. La nostra capacità di percepire la struttura temporale e la nostra sensibilità al tempo sono fondamentali per il funzionamento adattativo e tutti i comportamenti sono, in definitiva, sotto il controllo del tempo. La sua mancata percezione nella persona con neurodiversità è un generatore di ansia che scatena risposte che vanno da meccanismi compensatori, come le stereotipie, a reazioni violente fino all’autolesionismo. In un esperimento si è visto che quando si chiedeva a bambini di età compresa tra 10 e 24 mesi di non rispondere ad un comando per un tempo pari a 5 secondi, lo facevano adottando azioni ripetitive durante l’intervallo, tipo il dondolio del corpo, mentre nei bambini più grandi, di 4-7 anni, le manifestazioni di questo “orologio comportamentale” erano significativamente ridotte. Sembra che la dipendenza dalle azioni motorie per stimare la durata possa essere soppiantata (durante lo sviluppo) dai processi cognitivi.

È chiaro che tutto questo viene ad essere stravolto nell’autismo. In generale le persone con neurodiversità si sentono perse in un mare di tempo, e di conseguenza tentano a sviluppare routine e rituali come sistema di compensazione. Tutte le attività vengono sottoposte alla stessa sequenza ogni giorno e se si verifica un imprevisto che la altera, compaiono problemi di comportamento. Se poi l’imprevisto si inserisce in un periodo particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo, le conseguenze possono essere devastanti. Il blocco della caldaia, che ha spostato di un giorno la doccia, ha provocato effetti catastrofici in mia figlia che ha visto sbriciolarsi uno dei capisaldi della mattina, cioè di quello spazio compreso tra la colazione e il pranzo. In preda ad uno stato di grande agitazione psico-motoria, mi ha chiesto urlando il giorno preciso nel quale tutto si sarebbe risolto e se lo è segnato sul calendario, già strapieno di appunti relativi a tutti gli appuntamenti mancati.

Sono situazioni difficili come queste che mi portano a riflettere sulle conseguenze della pandemia nei nostri figli, tutti cresciuti al prezzo di enormi sacrifici personali ed economici. Il continuo stravolgimento di routine, anche se soppiantato da nuove ritualità, ha creato dei profondi squilibri emotivi che si esprimono in rabbia, disperazione e depressione nei quali inevitabilmente anche i genitori rischiano di precipitare. Non so cosa succederà quando usciremo da questo tunnel, su quali rovine dovremo ricostruire gli splendori passati.

Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto, non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna (Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani)


 

mercoledì 7 ottobre 2020

Il commesso

Come era già capitato con Kent Haruf, le prime battute del libro di Malamud mi hanno affascinato tanto da tenermi incollata, pagina dopo pagina. La bellezza della narrazione risiede nella semplicità che solo un grande scrittore riesce a mantenere, evitando di cadere nelle solite frasi ad effetto, in elucubrazioni pseudo-filosofiche volte ad aumentare il numero delle pagine, in introspezioni farraginose che alla lunga annoiano. La quotidianità non è mai banale perché nessuno di noi lo è. Descrivere la realtà, senza nulla aggiungere, è più che sufficiente per fare di una storia un grande romanzo. Nonostante “Il commesso” si svolga principalmente all’interno di una drogheria, ci sono così tante emozioni che quello spazio si espande e si illumina, sembra di stare seduti comodi a teatro a godersi lo spettacolo.

Voglio soffermarmi sull’italianità presente, sulle assonanze tra Frank Alpine e San Francesco di Assisi, a partire proprio dal nome del protagonista che ne è il diminutivo. Il commesso è in cerca di una vita migliore, di un’opportunità che lo riscatti da scelte sbagliate nel passato. La vita non è stata generosa con lui, vissuto in un orfanotrofio e poi in una famiglia dalla quale è scappato. Viene dall’Ovest, da San Francisco (ed ecco ancora un richiamo al santo), dove ha lavorato in un negozio di alimentari. La figura del poverello di Assisi ritorna in due occasioni: all’inizio, nel momento in cui Frank si presenta al lettore. Sta sfogliando una rivista e viene attratto da un’illustrazione raffigurante il frate. Il proprietario del negozio di dolciumi che lo vede così assorto, si avvicina per curiosare.

«Sembra un prete» azzardò Sam. «No, è san Francesco di Assisi. Lo si capisce dal saio marrone e da tutti quegli uccelli per aria. È quando predicava agli uccelli. Quand’ero ragazzo, un vecchio prete veniva all’orfanotrofio dove sono stato allevato e ogni volta che veniva ci leggeva una storia di san Francesco. Me le ricordo tutte quante».

E più avanti

«Era un grand’uomo. Per come la vedo io, ci vuole un certo fegato per predicare agli uccelli […] ha dato via tutto ciò che possedeva, fino all’ultimo centesimo, e tutti i vestiti che aveva indosso. Era contento di essere povero. Diceva che la povertà era una regina e l’amava come una bella donna [] Vedeva le cose in un modo nuovo».

Nella seconda occasione, Frank racconta ad Helen la storia della famiglia di neve fatta dal santo. In un periodo di crisi spirituale, San Francesco desiderò di avere una moglie e dei figli. Una notte, non riuscendo a dormire, lasciò il giaciglio e con la neve plasmò una donna e due o tre bambini.

Dopo li baciò tutti, tornò dentro e si sdraiò sulla paglia. Si sentì molto, molto meglio e si addormentò subito. Dopo aver terminato la storia, Frank ripeté ciò che aveva detto a Sam Pearl: la mia testa è piena di queste storie, non mi chiedere perché […] arrivano nei miei pensieri senza nessun motivo in particolare.

Frank cerca di seguire l’esempio del santo e rinuncia a prendere i soldi da Morris per il lavoro svolto; considera il gesto un modo per espiare la propria colpa e raggiungere la felicità con Helen. L’identificazione con San Francesco trova la migliore espressione nell’immagine di Frank al parco

Helen vide un individuo accosciato accanto a una panchina, intento a dar da mangiare ai piccioni. Per il resto, l’isolotto di cemento era deserto. Quando l’uomo si alzò, i piccioni si levarono in volo, alcuni gli si posarono sulle braccia e sulle spalle, uno gli si appollaiò sulle dita beccandogli le noccioline dal palmo aperto. Un piccione grasso gli si appollaiò sul cappello.

Frank è anche attratto da Morris Bober, un ebreo sui generis, che non frequenta la sinagoga, non mantiene kosher la cucina e non mangia cibi kosher, non porta il classico cappello nero, tiene aperto il negozio nelle feste ebraiche. Come il santo di Assisi, la spiritualità si esprime attraverso altre modalità.

Quello che mi preoccupo di fare è seguire la Legge ebraica […] Osservare la legge significa comportarsi bene, essere onesti, essere buoni. Buoni con gli altri. La vita è abbastanza difficile. Perché dovremmo fare del male a qualcuno?

Morris è il padre che Frank avrebbe voluto avere e, come il figlio prodigo, è accolto nonostante il male commesso. Il legame che lo lega all’uomo si manifesta in tutta la sua potenza alla sepoltura quando, per vedere dove andava a finire la rosa che Helen aveva gettato nella fossa, cade con i piedi sulla bara. Un’azione dettata dall’inconscio e che dà il via alla sua successiva identificazione con l’uomo buono e giusto che era stato Morris. Si sveglia alle sei per dare la pagnotta di tre centesimi alla polacca, guarda Nick Fuso, l’affittuario, rientrare furtivamente portando una busta con la spesa fatta nel negozio di fronte e serve tè con il limone a Breitbart.

Un romanzo intenso, un capolavoro di scrittura, una grande fortuna che la sua opera omnia sia stata tradotta e pubblicata da Minimum Fax. 


 

 

 

 

venerdì 2 ottobre 2020

Il manicomio di Pechino

Meglio di qui il senatore dove vivrebbe? Alloggiato, nutrito, tutte le ore libere ad ascoltare e poi riflettere sulle notizie del mondo? In quale altro luogo potrebbe manifestare così francamente tutto se stesso, quale la natura lo ha creato? Fuori dal manicomio sarebbe certamente beffato, in continua ira, ribellione e la conclusione sarebbe una condanna, il carcere.

Voglio iniziare dal fondo di questo splendido libro. Senatore è il soprannome dato ad un ricoverato che, all’età di diciotto anni, aveva cominciato a sentirsi tale, un atteggiamento che metteva fortemente a disagio il padre. Furono provate diverse medicine senza alcun risultato, finché venne rinchiuso nel manicomio. Qui aveva trovato la sua dimensione; passava le giornate ad ascoltare le notizie alla radio, nessuno che lo contraddiceva, anzi i suoi deliri venivano accolti con interesse, la comunicazione viaggiava attraverso quell’importantissimo canale. Dopo tanti anni, consapevolmente, il Senatore rifiutò di uscire perché là dentro si sentiva compreso, libero di trascorrere le ore ad inseguire elucubrazioni mentali di politica nazionale ed internazionale.

Non posso non pensare al futuro più o meno prossimo dei nostri figli con ritardo cognitivo, spesso ad aggravare un quadro di neurodiversità. Se il nostro fosse un paese veramente inclusivo, non vivremmo l’angoscia che ci assale non appena si valica il traguardo dei sessanta anni, perché ci sarebbero tante opportunità, pubbliche e private, che consentirebbero la loro e la nostra indipendenza. In realtà, nel Terzo Millennio, è cambiato molto poco e le esigue occasioni non riescono a soddisfare la domanda. Quello sul quale bisogna riflettere è la felicità di nostro figlio, in presenza di dignità. Felicità che si esprime nel cantare, nel parlare diverse lingue straniere, nel dipingere, nel tagliare la carta, nel fare sport, momenti sereni che possono essere intervallati con le quotidiane incombenze (spazzare la camera, rifare il letto, apparecchiare, sparecchiare, mettere i panni sporchi in lavatrice e poi in asciugatrice) che, disabilità o meno, sono noiose per tutti.

Alla voce “dignità” il vocabolario Treccani cita: condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e ch’egli deve a sé stesso. Dignità legata alla condizione di uomo e che, secondo Eugenio Borgna, viene ferita dal dolore, dalla sofferenza, dalla indifferenza, dalla noncuranza, dal male. Il paradiso terrestre per i nostri figli dovrebbe proteggerli da tutto questo. Essere ancora costretti ad usare il condizionale è un dolore che divora ogni genitore e che ha armato la mano di chi non se l’è sentita di lasciare il proprio figlio, così amorevolmente cresciuto a discapito di ogni aspirazione personale, alla mercé del Fato.

Le cosiddette strutture protette possono andare bene se gestite da persone intelligenti, di profonda moralità, illuminate, quali furono Basaglia e lo stesso Tobino, ma siamo circondati da un deserto emotivo oltre che culturale. I nuovi medici sono figli del tempo in cui vivono, infarciti di tecnologia, di valutazioni strumentali, della molecola perfettamente incastrata al recettore per l’effetto voluto, di frasi brevi ed essenziali, della mancanza della pietas che fa di un medico un buon medico. È inutile nasconderlo: non c’è scampo.

Lo ripeto, questo è il manicomio di Pechino. Ogni tanto Tobino inserisce questa affermazione perché ciò che racconta è pesante. Il libro, pubblicato nel 1990, descrive situazioni che ormai si possono definire incancrenite, irrimediabilmente radicate nel tessuto sociale, tipo la nomina a direttore del manicomio di persone inadatte a ricoprire quel ruolo, sia per curricula che per predisposizione personale. Si tratta di scelte volute e imposte dal prelato o dal politico potente e chissenefrega del benessere dei pazienti. Infatti in Italia diventano direttori di manicomio coloro che non ci sono mai stati, che nell’ospedale non hanno abitato, non sono stati a tu per tu con i malati di mente per anni e anni.

Con queste premesse, alcune notizie che, a intervalli di tempo, rimbalzano sulle prime pagine dei giornali, indignando l’uomo medio, sono conseguenza di questo andazzo, di una qualità del lavoro sempre più scadente, di burnout che non è l’eccezione ma la regola. Ho dato chiari ordini, gli ammalati che solitamente sporcano il letto debbono essere svegliati e condotti al gabinetto, quelli che per malattia non possono alzarsi debbono essere periodicamente svegliati ed invitati a orinare nel pappagallo o facilitati con la padella. Se un ammalato sarà trovato con lenzuola imbrattate, l’infermiere sarà comunque punito. L’ammalato deve dormire nel pulito. Tutto questo è possibile se chi è responsabile di strutture psichiatriche, è attento alle esigenze del malato, come dell’operatore professionale. Occorre trattare ogni infermiere secondo il suo bisogno, in modo che almeno di un poco diventi migliore. 

In questo diario, scritto tra il 1955 e il 1956, Tobino ha affidato anche la sua apprensione all’uso del Largactil nella cosiddetta “cura del sonno”, un approccio rivoluzionario per il periodo storico. Si legge la paura, ma anche la sicurezza derivante da studi approfonditi secondo i quali era impossibile sbagliare. La grandezza di un uomo è valutata dalla percezione della propria inadeguatezza che lo spinge ad andare al fondo delle cose. In questo modo l’umanità dello scienziato diventa bellezza narrativa che arricchisce tutte le opere di Tobino.


 

lunedì 28 settembre 2020

Fratello di ghiaccio

Un libro inconsueto questo “Fratello di ghiaccio”, arrivato in Italia dopo cinque anni dalla pubblicazione. Le prime pagine sono degli schizzi che descrivono situazioni della vita rappresentate come montagne; e poi delle citazioni che inducono ad una necessaria sosta per chiedersi dove porterà il libro. Si parla di autismo, ma non solo. Mi piace essere sorpresa da qualcosa di inatteso e la passione della scrittrice per i ghiacci in ogni forma, dimensione e significato recondito è veramente interessante. Molto bello il paragone tra ghiaccio e autismo, non come mancanza di rapporti interpersonali, di empatia, ma come sproporzione tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto.

Mio fratello è un uomo intrappolato nel ghiaccio. Ci guarda da lì. O, con più esattezza, dentro di lui c’è una fessura che a volte ghiaccia. Lui c’è e non c’è.

Penso di avere letto molto sull’autismo, come saggi e come esperienze di vita ed ogni volta mi trovo a sottolineare, stupita e chiamata in causa, parti del libro con frecce che rimandano a miei pensieri, a situazioni che vivo quotidianamente. Il fratello della scrittrice spesso chiede cosa deve fare. “Devo mangiare?” Non posso fare a meno di pensare a mia figlia che, nei suoi momenti di maggiore ansia, mi chiede: “A cosa devo pensare adesso, mamma?”

Non è facile confrontarsi giornalmente con la neurodiversità. Lo stesso vale per i nostri figli, incapaci di adattarsi a situazioni in continua evoluzione. Essere l’accompagnatore del quotidiano, con la funzione di semplificare e scomporre i contesti generatori di ansia, se non di veri e propri attacchi di panico, è logorante e alienante. La vita del caregiver si restringe sempre di più, fino ad essere l’unica possibile.

Da quando si è lasciata con mio padre, più di vent’anni fa, mia madre non ha avuto nessuna relazione seria; così è diventata un’esploratrice polare, e traina sulla slitta mia fratello.

I genitori della scrittrice si separano lasciando quell’aura di incertezza su di chi sia la colpa. Esperienza già vista e vissuta. Sono contenta di aver risparmiato ad un altro figlio o figlia il dolore di tante separazioni: da una tranquilla normalità, dalle amicizie, dagli affetti, dal lavoro sognato.

Il libro è ricco di informazioni e storie sulle esplorazioni artiche ed antartiche. C’è il breve capitolo che tratta del dirigibile Norge, costruito da Umberto Nobile, che mi ha fatto ritornare con la mente al film “La tenda rossa” del 1969, visto insieme a mio padre, grande appassionato di storia.  Ricordo la sua presenza rassicurante nei passaggi più cruenti del film. 

Notizia. Muoiono due persone, una madre di ottantadue anni e sua figlia, disabile, di quaranta. Alla morte della madre, per cause naturali, segue quella della figlia, per inanizione. Vivevano da sole, isolate, al polo nord? No, vivevano in Spagna.

Il dopo di noi appare in tutta la sua brutalità. La simbiosi è talmente stretta che il momento della necessaria autonomia viene rimandato di anno in anno finché è il destino a scegliere. Su questo pesa anche la mancanza di sostegno sociale, di progetti che diano seguito alla vita dignitosa che ogni genitore ha voluto e realizzato per il proprio figlio. Gli autistici hanno un aspetto normale e vivono a lungo come qualsiasi altra persona. La possibilità che ci sopravvivano è l’angoscia che permea il quotidiano, non appena viene varcata la boa dei cinquanta anni; è l’incubo ricorrente delle notti fisiologicamente più insonni; è il tormento che spinge ai gesti estremi.

Un grande plauso alla casa editrice Codice che ha scovato questo lavoro, a metà tra narrativa e saggistica, decidendo di tradurlo, pubblicarlo e rischiare.  


 

 

 

 

venerdì 18 settembre 2020

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

Dopo tre anni un altro scrittore abruzzese ha vinto il Premio Campiello. Nel 2017 era stata la volta di Donatella Di Pietrantonio e nel lontano 1968 il grande, immenso Ignazio Silone. Tre stili diversi, tre contesti territoriali differenti: la Marsica, Pescara e il suo territorio, Lanciano.

Il romanzo “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” è proprio questo: nell’arco di più di ottant’anni il protagonista racconta se stesso all’interno della Storia, quella con la maiuscola, in un linguaggio semplice nei contenuti, in cui l’italiano si mischia al dialetto, spesso - e forse anche troppo - infarcito di modi di dire tipicamente abruzzesi. Liborio è un ingenuo, con la sfortuna di essere nato nel periodo sbagliato e nel posto sbagliato. Nel 1926 l’Abruzzo era una regione molto povera, straordinariamente bella, ma sconosciuta ai più. Il protagonista è costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare: questo è uno dei tanti “segni neri” di cui egli parla e che altri non sono che calci al sedere che, appunto, lasciano il segno. Una vita sfortunata: non conosce il padre, del quale ha ereditato gli occhi, è costretto ad emigrare al nord per lavorare, la sua testa sempre piena di pensieri ricorrenti, spesso rimpianti; i suoi comportamenti bizzarri lo rendono il bersaglio preferito dei bulli del suo paese prima e poi di quelli al lavoro; non sempre capisce il sarcasmo, il dileggio perché di fondo è un puro, ma quando prende consapevolezza della cattiveria altrui, perde la testa ed allora diventa protagonista di atti che rimangono nella memoria collettiva e che lo rendono un cocciamatte portandolo dritto al manicomio, dove rimane nove anni, senza che ne abbia la reale percezione. Molto intenso è il momento in cui viene dimesso dall’ospedale psichiatrico: siamo alla fine degli anni 70 con la rivoluzione di Basaglia che, a più di 40 anni, rimane incompiuta negli intenti sociali.

Quando Liborio torna al suo paese, lo trova cambiato nella topografia, molte persone sono morte, altre, tra cui la desiderata Teresa, sono fisicamente modificate e non per il passare del tempo. Ciò che rimane sempre costante è la tenuta a distanza di chi non è conforme a ciò che la maggioranza definisce normale, salvo poi diventare il giullare del paese, quello su cui farsi due risate.

Interessante lo schema del racconto in un unico flusso di coscienza che, però, verso la fine tende a stancare proprio perché non è facile seguire i pensieri di un cocciamatte. Forse questo è il difetto, il limite di questa opera, che non ha tenuto conto che, nella vita reale, gli psichiatri hanno incontri settimanali di un’ora con i pazienti, durante i quali contengono l’eccessiva ridondanza di percezioni, di emozioni e ricordi. L’atteggiamento psicotico di Liborio, che l’autore ha ben descritto, è stato mantenuto per troppo tempo facendo perdere così il senso di questo lavoro e cioè la descrizione dell’umanità e non della malattia e della stranezza.



 

mercoledì 9 settembre 2020

Il bacio al lebbroso

Già dalle prime battute si delinea la figura di Giovanni Peluèr. È appena mattina, al risveglio, poche persone possono essere sicure di avere un aspetto gradevole. Non è il caso di Giovanni: basso, le guance infossate, il naso lungo e aguzzo, la pelle rugosa, i denti cariati. Più avanti lui stesso si definirà miserabile preda per il pozzo sacro di Sparta. Quando alla controra il padre riposa (un’immagine che inevitabilmente riporta al Marchese del Grillo), lui preferisce uscire, buttarsi nel caldo pomeriggio perché le strade sono deserte, non ci sono le ragazze sedute sulla soglia delle case, intente a cucire o semplicemente a parlare tra loro, che solitamente lo scherniscono con sorrisetti e occhiate eloquenti. Al di là dell’aspetto fisico che lo induce ad un’incuria nel vestire, tende a comportarsi in un modo alquanto strano. Non sapeva riflettere senza corrugare la fronte, gestire, ridere, declamare versi, pantomima per cui tutto il villaggio lo beffava

Vive con il padre, Gerolamo, possidente terriero, più spesso a letto per dolori reumatici. La madre è morta di tubercolosi quando lui era ancora piccolo e probabilmente la gracilità del suo essere può essere attribuita alla consunzione cronica che lo ha colpito già in utero e che ricercherà come unica salvezza possibile. La zia di Giovanni, sorella minore del vecchio Gerolamo, è certa di sopravvivere non solo al fratello, ma anche al nipote; tutte le ricchezze dei Peluèr passerebbero così a lei e poi a suo figlio.

Giovanni è molto religioso; la religione è per lui un rifugio e l’adorazione alla Vergine Maria un surrogato alla precoce scomparsa della madre. In chiesa rimane colpito da Noemi d’Artiel, una diciassettenne dal volto ancora adolescenziale su un corpo robusto di donna e rimane sconcertato nell’apprendere che la ragazza ha accettato di sposarlo su insistenza del parroco. Le farò orrore, dirà a bassa voce. Noemi sembra la donna giusta per Giovanni in quanto non cerca nel matrimonio una gioia carnale, inserendola nella schiera di donne che mantengono una candida ignoranza nonostante le molteplici gravidanze.

La prima notte di nozze è un disastro e lo scrittore gli dedica un capitolo molto breve. Giovanni Peluèr dovette combattere a lungo, prima contro la propria frigidità, poi contro una morta. All’alba un gemito fioco segnò la fine d’una lotta durata sei ore. Madido di sudore Giovanni Peluèr non osava muoversi, più schifoso di un verme vicino a quel cadavere finalmente abbandonato.

I novelli sposi ritornano dal viaggio di nozze prima del tempo suscitando i pettegolezzi della gente. La sollecitudine di Noemi verso il suocero come una dama di S. Vincenzo, le sue costanti presenze in chiesa dove si attarda a pregare con il volto coperto dalle mani, dirimano ogni insinuazione. Giovanni riprende le sue uscite cercando di fare tardi il più possibile perché si accorge dell’appassimento della moglie, della sofferenza dell’anima e del corpo. Era lui, lui, Giovanni Peluèr che illividiva quegli occhi, che scolorava quelle orecchie, quelle labbra, quelle gote: bastava la sua presenza a consumare quella giovane vita. Così disfatta gli era ancora più cara. Quale vittima fu più amata dal carnefice?

Su insistenza del parroco, Giovanni va a Parigi per portare a termine uno studio storico, ma è un giovane indolente per costituzione e temperamento perciò passa le giornate seduto al bar o a camminare. La vergogna di sé non gli permette neanche di godere dei piaceri dell’amore meretricio. Questa sottomissione senza disgusto facevano provare a Giovanni un dolore peggiore di quando Noemi, con tutto il suo corpo, gli gridava “No!” Nelle lettere che riceve da casa si racconta del rifiorire di Noemi e questo non fa che confermare l’influenza negativa che il suo aspetto ha sulla moglie.

Improvvisamente viene richiamato. Il parroco è preoccupato da ciò che Noemi gli confessa: si sente preda delle tentazioni. L’oggetto del desiderio è un giovane dottore giunto al villaggio per sostituire il vecchio medico alle prese con la tubercolosi del figlio. Giovanni ritorna ancora più debole e magro: è l’inizio di una lenta, consapevole discesa verso la malattia, di cui in parte è impregnato, ma che egli favorisce con visite giornaliere al letto del figlio morente del medico.

Noemi vive con intensità emotiva la contraddizione di provare dolore nel vedere Giovanni spegnersi e sentirsi contemporaneamente sollevata, perché presto liberata da una schiavitù. La notte chiamava Giovanni perché le venisse accanto e siccome lei faceva finta di dormire, lui si alzava e gli dava dei baci, quei baci che in altri tempi le labbra dei santi ponevano sui lebbrosi.

Interessante è lo stralcio dal libro di Nietzsche che Giovanni legge quando va a trovare il figlio del medico. Che cosa è il bene? Tutto ciò che esalta nell’uomo il sentimento della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa. Che cosa è il male? Tutto ciò che ha radice nella debolezza. Periscano i deboli e i falliti; e si aiutino anche a sparire. Che cos’è più nocivo di qualunque vizio? La pietà che chi è nato ad agire sente per gli spostati e per i deboli: il Cristianesimo. In queste poche righe c’è tutto il senso del libro e anche del pensiero di Mauriac. Lo scrittore, che si è autodefinito “un cattolico che scrive romanzi”, ha un Cristianesimo di tipo sentimentale. Ho una fede da bambino; sono uno di quelli che si accostarono alla prima comunione con un vero incanto – disse in un’intervista a Guido Piovene. I suoi personaggi sono spesso tormentati e vivono storie conflittuali che non sempre si risolvono con la morte. Dalle sue pagine, spesso stupende, germinano i fiori del male. È stato definito il romanziere della concupiscenza, attratto, affascinato dal mostro che è in agguato dentro l’uomo, al quale deve necessariamente contrapporsi la Grazia. Il nodo da sciogliere è quello tra anima e corpo che, secondo Pascal, non sono in punti contrapposti, separati da un abisso, ma sono stranamente avvinti e provocano il contrasto e la tragedia del cristiano. Desiderare, amare; per Mauriac un amante carnale è molto vicino a un amante di Dio. Basta un niente per precipitare nella voragine dei sensi o per elevarsi alla Grazia.