Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

venerdì 30 aprile 2021

Lettera a Edith Stein

Leggere, ma anche rileggere, i libri della Madre Anna Maria Cànopi, monaca benedettina dell'Abbazia Mater Ecclesiae dell'Isola di S. Giulio, scomparsa nel 2019 nel giorno di San Benedetto, rappresenta un balsamo per l'anima, quella carezza di cui spesso ne sentiamo la necessità.

“Lettera a Edith Stein” è un piccolo libro di appena 61 pagine, assolutamente dense di emozioni, immagini, sensazioni palpabili come le descrizioni delle notti e delle albe che la Madre Abbadessa ha visto dalla finestra della sua cella, mentre scriveva questo piccolo gioiello di intimità e spiritualità.

La lettera si svolge in tre notti: quella del 9 agosto, data della morte di Edith Stein nel forno crematorio di Birkenau; quella del 10 agosto, notte di S. Lorenzo, quando di lei non rimase che un pugno di cenere; e la vigilia del 15 agosto, festa dell’Assunta, in modo che al mistero di Cristo si unisse quello di Maria, sua madre.

Il libro cerca di capire il significato della sofferenza umana e principalmente quella del popolo ebraico che, sebbene sia quello Eletto, fu sottoposto (e lo è tuttora) alle più assurde atrocità. E in questa notte della Stori, raccontata nelle tre veglie della Madre Abbadessa, c’è comunque il chiarore di una fratellanza tra popoli con diverso credo. Rimane sempre inspiegabile come l’Umanità debba trovare nella diversità, religiosa e ideologica, motivo di discordia più che di arricchimento, debba avere la necessità di primeggiare a scapito degli altri.

Non è difficile immaginarsi Madre Cànopi intenta ad una veglia così feconda di pensieri condivisi. Per chi ha avuto modo di incontrarla, l’esperienza del suo sguardo potente che illuminava la stanza e delle sue parole, semplici ed intense, che realmente aprivano un varco nella mente e nel cuore, sono stati momenti indimenticabili, dei quali ringraziare Dio e la Vita.


 

sabato 20 marzo 2021

L'uomo senza epilogo

 L’epilogo è solamente un confine artificiale fittizio, tanto rassicurante quanto inutile. Un po’ come un muretto di pietra sul limitare di una distesa erbosa, che non si propone tanto di dividere, quanto di stabilire che oltre quella linea non esiste nient’altro. Eppure dall’altra parte c’è una vastità inesplorata.

Per me l’incipit di ogni libro è il biglietto da visita della storia che andrò a leggere; in quelle poche righe c’è tutto quello che troverò dopo e forse anche qualcosa di più.

Ieri pomeriggio ho preso in mano questo libro e non l’ho più lasciato finché non sono arrivata all’ultima pagina, con un epilogo che mi ha piacevolmente sorpresa, che non mi aspettavo, anche a causa della frenesia di sapere cosa accadeva nel capitolo seguente.

Epilogo è la parola chiave, protagonista non solo del romanzo, ma, a pensarci bene, della nostra intera esistenza. L’autore stimola ne una profonda riflessione. Si dice “non c’è fine, senza inizio” indicando che per arrivare al punto B, bisogna necessariamente partire dal punto A. È anche vero che oltre il punto B si apre un altro mondo, una nuova visione, una ulteriore possibilità. E questo, nei comuni mortali, credenti o agnostici, è fonte di speranza perché non c’è cosa peggiore che sapere che tutto, finendo, venga risucchiato nel cimitero oblioso.

La trama, e in questo caso non c’è termine più azzeccato, unisce tanti personaggi attorno ad un libro, diventato un successo editoriale. E qui mi fermo e non aggiungo altro per non sciupare quella particolare magia che alcuni romanzi hanno di accompagnarti per ore, non facendoti pensare ad altro che all’epilogo. Sono sicura che “L’uomo senza epilogo” di Gabriele Dolzadelli sarà l’inizio di una voce nel panorama letterario. 


 

giovedì 25 febbraio 2021

Il fiore rosso

Scritto nel 1882 e pubblicato un anno dopo, Il fiore rosso è il racconto più importante di Vsevolod Michajlovič Garšin (1855 – 1888). L’immagine di apertura è l’ingresso di un malato nell’ospedale psichiatrico «In nome di Sua Maestà Imperiale, l’Imperatore Pietro I, dichiaro aperta l’ispezione di questo manicomio!» La sua voce è forte, chiara, penetrante e chi legge non può fare a meno di sorridere. D’altronde, nell’immaginario collettivo, l’azione del folle è spesso motivo di ilarità perché diretta, senza l’intermediazione delle norme condivise di comportamento. E quanti di noi, in particolari circostanze, non ha pensato per un momento di “dare di matto” come unico modo per affermare i propri diritti.

«Portatelo in reparto, a destra»

«Lo so, lo so. Sono già stato qui con voi l’anno scorso. Stavamo ispezionando l’ospedale. So tutto e mi sarà difficile imbrogliare» disse il malato

Queste prime battute lasciano poi il posto ad un senso di angoscia crescente che deflagra nel finale. Chi accompagna il malato è stremato, a malapena si regge in piedi. Notti insonni e giorni altrettanto faticosi per controllare l’estrema agitazione, finché il malato viene costretto nella camicia di forza.

Il manicomio ha un reparto maschile e uno femminile, ci sono due stanze riservate agli agitati: una con i materassi al muro, l’altra con le pareti di legno. La struttura pensata per ottanta persone, alla fine arriva ad ospitarne trecento. Nelle minuscole stanzucce, si trovavano quattro o cinque letti e, d’inverno, quando ai malati non era consentito uscire in giardino e le finestre, dietro le inferriate, erano sprangate, l’aria diventava tremendamente viziata. Il malato viene portato nel bagno. La stanza è anche peggio delle altre per la sporcizia sul pavimento, la scarsa luce e la presenza di due buche ovali per il lavaggio dei ricoverati. Garšin sa perfettamente cosa raccontare perché Il fiore rosso trae spunto dalla sua esperienza. Di animo sensibile, lo scrittore venne turbato da due eventi: la separazione dei suoi genitori e la guerra contro i Turchi nei Balcani alla quale partecipò come volontario. Al ritorno da questa esperienza venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Garšin aveva paura che la malattia mentale lo privasse della sua capacità di scrivere, così importante per lui. In una lettera alla madre del 9 ottobre 1881 scrisse: Non posso fare affidamento sulla mia forza; non credo che sarò in grado di lavorare continuamente e con successo.

Quattro anni più tardi ammise in una lettera all’amico A. J. Gerd: Le mie ambizioni letterarie sono molto grandi. Quello che ho scritto ha avuto successo secondo me […] Sento che solo in questo campo lavorerò con tutte le mie forze; inoltre, la questione della mia abilità letteraria è per me una questione di vita o di morte. Non posso tornare indietro. Proprio come una voce dice ad Assuero “Va! Va!” così qualcosa mi mette una penna nelle mani e mi dice “Scrivi! Scrivi!”. Purtroppo, le frequenti crisi nervose lo privarono della capacità di scrivere per lunghi periodi di tempo, aggravando la depressione che lo spinse a buttarsi nella tromba delle scale della propria abitazione a San Pietroburgo.

Nel racconto, il giorno dopo il protagonista ha il colloquio con lo psichiatra e viene ufficialmente inserito nel manicomio. Durante il giorno, i malati sono impegnati in lavori di manutenzione del giardino che abbonda di fiori di ogni tipo e colore.

Qui, non lontano dalla veranda, crescevano tre piccoli papaveri di una specie particolare; erano molto più piccoli del normale e si distinguevano per il loro rosso vermiglio particolarmente intenso.

Egli ne rimane particolarmente colpito e immagina che essi siano portatori del male. Così decide di salvare l’Umanità andandoli a strappare. Concetto cardine de Il fiore rosso è la responsabilità individuale di fronte a situazioni sociali. Ognuno è custode del proprio fratello, chiamato a rispondere del disinteresse, colpevole di egoismo, malato di indolenza. Uomo è colui che persegue un obiettivo, che ha uno scopo nella vita, che comunque lascia un segno, un ricordo di sé agli altri. E così andare a prendere i tre papaveri diventa un’impresa eroica, oltre che epica.

Il primo fiore viene reciso facilmente perché nessuno si aspetta un atto del genere: i malati hanno il compito di curare le aiuole. Nessuno vide come lui scavalcò l’aiuola, strappò il fiore e come frettolosamente lo nascose sul petto sotto la camicia. Quando le foglie fresche e bagnate di rugiada toccarono il suo corpo, impallidì come un cadavere e pervaso dall’orrore spalancò gli occhi. Un sudore freddo gli bagnò la fronte. Le influenze venefiche cominciano a distruggere il suo corpo, compare la febbre, dorme pochissimo, cammina senza sosta, dimagrisce a vista d’occhio.

Dopo tre giorni, riesce a strappare il secondo fiore e a sfuggire al guardiano precipitandosi nella sua camera e nascondendo la pianta sul petto. La lotta immaginaria iniziò nuovamente. Il malato sentiva che dal fiore il male si snodava come lunghe serpi striscianti che lo avviluppavano, lo stringevano, gli schiacciavano le membra, gli impregnavano tutto il corpo col loro terribile contenuto.

Manca l’ultimo papavero, fiore del male, portatore di morte a causa del l’oppio. Il protagonista è debole, imbottito di farmaci e legato al letto. Raggiunge l’obiettivo superando enormi difficoltà come un supereroe. Guarda le stelle in cielo e ad esse dice di avere pazienza perché presto sarà con loro. Come arriva alla pianta, la strappa con le poche forze rimaste, la riduce in pezzetti, la calpesta e se la mette sul petto, là dove c’è il cuore. Torna in camera e, ormai privo di sensi, si butta sul letto.

Il mattino dopo lo trovarono morto. Il suo viso era tranquillo e felice; i lineamenti emaciati dalle labbra sottili e dagli occhi chiusi e infossati esprimevano come una gioia orgogliosa. Quando lo adagiarono sulla barella, tentarono di disserrare la mano per estrarre il fiore. Ma la mano si era irrigidita: si era portato il suo trofeo nella tomba.

Questo racconto pone due domande: i matti sono in grado di fare gesti eroici? La percezione del male può essere considerata un’allucinazione? È solo considerando l’uomo e non la malattia che siamo in grado di rispondere con verità.


 

sabato 13 febbraio 2021

Il prete bello

Già dalle prime pagine mi sono chiesta: “Come ho fatto a non leggerlo prima?” Mi sono sentita l’ultima tra i lettori per essermi lasciata sfuggire questo capolavoro.

Ho sempre letto tanto, fin da bambina, poi ho avuto un periodo buio durante l’università e i primi anni di professione, nei quali altri problemi hanno riempito le mie giornate. Sto recuperando il tempo perduto e questo romanzo mi ha conquistata per la scrittura apparentemente facile, leggera, ma non c’è niente di più complicato che scrivere così. Non è da tutti, solo da grandi scrittori.

La storia si svolge in un rione vicentino dove vivono diverse famiglie e che fa parte della parrocchia di Don Gastone, avvenente e atletico uomo di chiesa, cappellano militare nell’esercito fascista, mandato a combattere in Spagna a sostegno della falange franchista; di questa esperienza scrive un libro che viene venduto nella parrocchia, comprato e diffuso capillarmente tra le donne, tutte innamorate e gelose di lui. Don Gastone è consapevole del suo fascino e lo utilizza per proprio tornaconto, ma anche per alleviare le gravi condizioni economiche di alcune famiglie del rione.

Riesce ad aiutare Sergio, un bambino di nove anni, figlio di nn, che vive con il nonno in estrema povertà. Accanto a lui, c’è l’amico Cena, compagno e complice di mille scorribande. La sua famiglia è composta dalla madre alcolizzata, da due fratelli dediti al furto e al piccolo crimine, e da uno zio – detto il Ragioniere – che entra ed esce di galera. Personaggio divertente è il cav. Esposito, vedovo con due figlie in età da marito, che tiene segregate in casa, proprietario di un bagno personale che offre solo agli ospiti importanti.

La bellezza del romanzo è nella caratterizzazione dei personaggi, espressione dell’Italia del dopoguerra e che, tutto sommato, non è poi così diversa da quella attuale; nella scrittura che scorre leggera e che tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina.

Non è mai troppo tardi, c’è sempre tempo per godere della buona letteratura. I libri chiamano dagli scaffali dei negozi, dalle pagine dei social, dalle recensioni in rete; alcuni piombano improvvisamente nella nostra vita, quasi caduti dal Cielo. È inutile capire il perché. Si apre si inizia a leggere.


 


 

lunedì 8 febbraio 2021

Morire

La trama si può riassumere in poche stringate parole: un uomo muore. Felix, il protagonista del romanzo breve, viene a sapere da un professore da lui contattato per una second opinion, che morirà entro un anno. La sua malattia non viene mai nominata ma si presume che si tratti di tubercolosi, che all’epoca era incurabile.

A dividerne il dolore è la fidanzata Maria, una ragazza molto più giovane di lui, che inizialmente ne rimane sconvolta, allontanando tale triste eventualità con la passione tipica della giovinezza. Sarebbe morta con lui, incapace di una vita senza amore. Terzo protagonista è Alfred, l’amico medico che gli ha nascosto la verità circa la malattia. Felix e Maria viaggiano per pochi mesi allo scopo di allontanare il pensiero della morte, andando alla casa sul lago, e poi a Salisburgo mentre sono di ritorno a Vienna.

Il motivo per il quale una storia così semplice risulti tanto avvincente è dato dalla descrizione degli stati d’animo dei due amanti. Felix gioca molto sulla sua maggiore esperienza per legare indissolubilmente a sé la giovane Maria, per la quale la tragedia è perdere ciò che considera il vero ed unico amore. Con il passare del tempo, ed anche per il pedante vittimismo di Felix, la ragazza comincia a ricercare momenti di solitudine nei quali riprendere contatto con se stessa e la vita che la circonda. Bellissimo è il flusso di coscienza che Schnitzler descrive associandolo alle immagini della natura: albe intervallate da tramonti, chiarore ed oscurità, distese di acqua e fitta vegetazione.

L’autocommiserazione di Felix si trasforma in invidia per la salute e la giovinezza di Maria, e in gelosia per chi avrà il suo amore alla sua morte. Sogna di ucciderla e in un’occasione tenta di farlo. Per un breve periodo i due amanti sembrano ritrovare la vecchia passione, ma è di breve durata. Maria, dall’inizio crocerossina devota, decide di approfittare del sonno di Felix per andare a fare una lunga passeggiata, spingendosi lontana da lui. È l’inizio della sua progressiva emancipazione emotiva. La malattia ha una brusca accelerazione, l’emottisi ne è il segno evidente. Il melodramma si conclude nell’unico modo possibile per il protagonista.

“Morire” fu pubblicato nel 1895, quando Schnitzler aveva 33 anni e da dieci anni era laureato in medicina. È un libro che dovrebbe essere letto da ogni medico, soprattutto da quelli che trattano le malattie terminali perché racconta di più e meglio di quanto facciano i trattati di clinica.


 

sabato 23 gennaio 2021

Primo amore

 Il mio primo ricordo di Samuel Beckett risale al liceo. All’epoca ero appassionata di George Bernard Shaw, tanto da portarlo all’esame di maturità, rigorosamente in inglese. Come in ogni classe che si rispetti, c’era una sfida tra una mia compagna, affascinata da Samuel Beckett, e me. La competizione fra noi mi aveva fatto scartare Beckett a priori.

Un paio di anni fa questo autore – straordinario, lo confesso – è piombato nella mia esistenza e da allora esce sempre vincente ad ogni confronto letterario. I suoi libri sono sottolineati, con note a margine, con rimandi alla mia esperienza clinica e personale. Su di lui sono stati scritti centinaia di saggi, ogni frase è stata vivisezionata e sono scesi in campo esperti in varie discipline umanistiche. Tutto assolutamente giusto, manca però un aspetto importantissimo, che non può essere tralasciato e che presenta analogie con altri scrittori, ad esempio Borges: la sua neurodiversità. Se la sua vita offre spunti interessanti in questo senso (consiglio di leggere le uniche due biografie in italiano), i suoi prodotti letterari sono una palestra in chi ha interesse a comprendere lo schema mentale in una persona con autismo ad alto funzionamento. Quello che si evidenzia è ciò che io chiamo verismo senza empatia, ossia la capacità di descrivere l’esterno e l’interno senza emozione, senza il minimo coinvolgimento; pura descrizione che segue quello che i suoi sensi registrano in maniera asciutta. Beckett non aggiunge niente di suo alla narrazione e i suoi personaggi sono autentici, in pensieri e azioni.

“Primo amore” è una novella che apre la raccolta di altre tre e dei tredici “Testi per nulla”, che Einaudi ha unito in un unico volume. Il denominatore comune delle opere è l’allontanamento, lo sfratto, sia forzato che volontario. Il protagonista di “Primo amore” viene messo alla porta dai fratelli alla morte del padre. La cosa lo stupisce ma non provoca alcuna reazione emotiva, tanto che l’assurdità della situazione fornisce considerazioni ironiche

Un giorno, ritornando dal W. C., trovai la porta della mia camera chiusa a chiave, e le mie cose ammucchiate davanti alla porta. Questo vi dice quanto ero stitico all’epoca.

Parlare di fenomeni fisiologici (defecazione, minzione, masturbazione), così come di sesso, non ha lo scopo di stupire il lettore, di stimolarne il prurito. Essi succedono, fanno parte della vita degli esseri umani, sono fenomeni naturali, privi di malizia ed erotismo

Io le presi il braccio, per curiosità, per vedere se questo mi avrebbe fatto piacere, ma non mi fece alcun piacere, allora lo mollai

Per una persona con neurodiversità, ad ogni azione deve corrispondere qualcosa di verificabile con i sensi, altrimenti risulta inutile e priva di significato.

Quando non sanno più che fare, si spogliano e senza dubbio è quanto di meglio hanno da fare. Si tolse tutto con una lentezza da stuzzicare un elefante, salvo le calze, destinate senza dubbio a portare al colmo la mia eccitazione. Fu allora che mi accorsi del suo strabismo. Fortunatamente non era la prima volta che vedevo una donna nuda, potei dunque restare, sapevo che non sarebbe esplosa.

La prima frase potrebbe far insorgere le femministe. Niente di più sbagliato in quanto il protagonista racconta ciò che ha sperimentato, i tentativi erotici della donna che non provocano in lui alcuna eccitazione. Lo strabismo spezza l’improbabile incantamento, quale elemento che emerge dalla normalità, da una consuetudine. Non si hanno le manifestazioni ansiose che rappresentano la conseguenza dell’interruzione improvvisa di una routine, in quanto il protagonista (tra le altre cose, privo di nome!) è un autistico ad alto funzionamento che introduce meccanismi adattativi diversi

Ho visto visi in fotografia che avrei forse potuto chiamare belli, se avessi avuto qualche dato sulla bellezza

L’astrazione non fa parte dello schema mentale dell’autismo. Non viene in aiuto nemmeno la sezione aurea, una proporzione matematica che viene apprezzata inconsciamente e che consente di affermare che una cosa è bella in quanto armonica. Nella neurodiversità tutto deve essere vero, concreto, definito, apprezzato con i sensi.

“Primo amore” è il racconto di un amore che potremo definire sui generis, se non coinvolgesse un autistico. La donna cambia addirittura nome nel corso della narrazione e rimane il dubbio se sia una prostituta o meno. Il protagonista viene accolto nella casa di Lulu, poi Anne, e invece di dividere il letto con lei, preferisce andare nel salotto che immediatamente stravolge nell’arredamento, rendendolo funzionale al suo schema mentale: lascia solo il divano con le sedute rivolte verso il muro, così da costringerlo a scavalcare lo schienale per sdraiarsi. Questo particolare fa venire in mente la macchina degli abbracci di Temple Grandin, ossia uno spazio ristretto, ben definito, nel quale è possibile un contatto altrettanto vero. La restante mobilia è messa sul corridoio perché inutile, non funzionale: il protagonista deve dormire, non fare attività sociale e ricevere ospiti.

Tutto crolla quando Anne gli dice di essere incinta, che il bambino è suo e giornalmente gli mostra i cambiamenti del suo corpo. La pressione emotiva lo destabilizza e raggiunge il massimo con il travaglio di parto. A quel punto non gli resta altro da fare che allontanarsi.

Mi faceva male, lasciare una casa senza che mi sbattessero fuori. Mi lasciai scivolare dal disopra dello schienale del sofà, mi misi la giacca, il cappotto e il cappello, non dimenticai niente, allacciai le stringhe e aprii la porta che dava sul corridoio.

Un finale che per certi versi ricorda “Murphy” , nel quale l’allontanamento è definitivo, e che ritroviamo anche nelle altre novelle della raccolta.


 

sabato 9 gennaio 2021

La suora giovane

Il romanzo “La suora giovane” è stato pubblicato nel 1959, anno della mia nascita. Ammetto che nella scelta di cosa leggere ci sono particolari che mi incuriosiscono e questo era uno, subito dopo il titolo che racchiude in sé quel tanto di mistero, di sottintesi che mi spingono ad approfondire. La curiosità, quella intimamente collegata con il sapere, è il mio carburante. Potrei passare un giorno intero seduta alla scrivania a scavare nella profondità delle cose, piacevolmente persa nel labirinto della mia mente, in quelle porte che si aprono svelando stanze sempre diverse, una dopo l’altra.

L’atmosfera di attese, sguardi e il palpabile desiderio dei due protagonisti si dipanano tra il 10 dicembre e il 2 gennaio in una Torino deserta, poco illuminata, percorsa da venti gelidi. Antonio è un 40enne celibe, impiegato; ha una donna con la quale si incontra, ma che non ha nessuna intenzione di sposare, e una collega di lavoro che suscita in lui desideri erotici, mai consumati. Serena è una novizia, molto giovane, di appena 19 anni, che presta assistenza notturna ad un notaio moribondo.

I due protagonisti si incontrano ogni sera alla fermata del tram 21. Dapprima Antonio non fa caso alla suora, ma la sua presenza costante e il suo aspettare nel caso faccia ritardo, fanno scattare l’interesse e il desiderio, quest’ultimo alimentato da un comportamento vezzoso che ha ben poco di spirituale. All’inizio non si parlano, Antonio non ne ha il coraggio, intimorito dalla situazione. Come spesso accade, è la donna che crea le condizioni adatte affinché l’uomo possa recitare la propria parte, come da copione universale.

Non voglio proseguire con la trama perché il libro merita di essere letto, esercitando il proprio fascino. Voglio fare una riflessione sul coraggio dell’autore di trattare un argomento che 62 anni fa era sicuramente spinoso, e di essere riuscito a trasformare il personaggio angelicato di Serena in una dark lady consapevole del proprio charme sull’anonimo travet. Dal libro è stato tratto un film del 1964 dove la scelta dell’attore che interpreta Antonio non è delle più azzeccate perché non incarna quanto trasmesso da Arpino, ma che rappresenta un valido esempio della cinematografia di quegli anni.