Janet Frame (1924-2004) è stata una scrittrice neozelandese
che il film “Un angelo alla mia porta”, vincitore del Leone d’Argento alla
Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del 1990, ha reso nota ai più. Forse
non tutti sanno che è stata due volte candidata al Nobel per la letteratura e
forse il premio sarebbe stato più che meritato per il significato profondo che
avrebbe avuto tale riconoscimento.
Autrice di undici romanzi, tre volumi autobiografici,
quattro volumi di racconti, una raccolta di poesie, un racconto per bambini,
articoli e saggi critici, era nata a Dunedin, città nell’isola del Sud. La sua
vita venne sconvolta dalla morte di due sorelle e la sua fragilità psichica
venne a galla durante il suo lavoro come insegnante. La diagnosi errata di
schizofrenia la catapultò nell’inferno degli ospedali psichiatrici per otto
anni. Venne sottoposta a circa duecento trattamenti di elettrochoc e fu messa
in lista per l’intervento risolutivo di lobotomia. Fortunatamente il libro “La
laguna e altre storie”, scritto mentre era ancora ricoverata nell’ospedale di
Seacliff, vinse un importante premio letterario e il temuto intervento venne
sospeso.
Il romanzo “Dentro il muro” è stato scritto nel 1961 e
pubblicato in Italia nel 1990. L’enorme potenzialità della rete mi ha permesso
di averne una copia, grazie ai siti specializzati in libri fuori catalogo e
introvabili. Un libro bellissimo, che dovrebbe essere inserito tra quelli di
medicina, fondamentale per sostenere l’esame di psichiatria. Basta con
l’estremo tecnicismo, con i saggi avulsi dalla realtà; l’esperienza della
malattia e della mancanza di compassione dei medici, della loro arroganza e
presunzione deve essere momento di riflessione e di ritorno all’origine
dell’ars medica.
Se anche il romanzo si riferisce ad un periodo storico che
la legge Basaglia sembra aver chiuso, non si può dire che le cattive abitudini
siano finite. Ce lo confermano tutti i casi di violenze fisiche e
farmacologiche che la cronaca ha portato alla luce. Era inevitabile che
succedesse, soprattutto quando ci scappa il morto.
Per il tuo bene è un
argomento persuasivo che alla fine induce l’uomo ad accettare la propria distruzione
(Janet Frame “Dentro il muro” pag. 62)
È una frase choc che trova ancora conferma nei tanti
interventi che poco hanno a che vedere con il rispetto della persona prima e
del malato dopo. Quando si lavora all’interno di strutture che accolgono
persone con disagio mentale di vario grado, è inevitabile l’uso di sistemi
farmacologici che ne consentano la gestione. È una prassi che libera gli
operatori sanitari dalla “fatica” di dover ascoltare il paziente senza
pregiudizi di sorta, dall’impegno di personalizzare la terapia e gli interventi
riabilitativi. Tutto questo avviene nonostante un movimento di pensiero,
iniziato negli anni 70 con Basaglia e che ha posto la malattia e il malato al
centro del problema psichiatrico. Un
malato di mente entra in manicomio come “persona” per diventare “cosa”. Il
malato, prima di tutto, è una persona e come tale deve essere considerata e
curata. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di
essere persone (F. Basaglia). Il malato non più chiuso in manicomio ma
curato nel suo ambiente. Proposta fattibile sulla carta ma spesso impossibile
nella realtà per la mancanza di fondi che consentano la presa in carico
intelligente, costruttiva del paziente psichiatrico. È necessario il sostegno
alla famiglia con consigli, incoraggiamento e informazione per favorire la
comprensione dei bisogni, spesso inespressi, del loro congiunto. Tutto questo si
traduce in risorse, energie, tempo che la società non vuole impegnare. E alla
fine tutto viene risolto con pillole e tso.
C’è un aspetto della
follia che viene menzionato di rado nella letteratura perché danneggerebbe la
romantica idea popolare del folle come un personaggio il cui eloquio affascina
per la sua carica poetica (…) Poche delle persone che si aggiravano per la sala
comune sarebbero apparse eroine accettabili per i gusti popolari; poche erano
personaggi eccentrici con un modo di agire disinibito e affascinante. La massa
provocava per lo più irritazione ostilità impazienza. Il loro comportamento era
offensivo, causava disagio; piangevano e gemevano; litigavano e si lamentavano.
Ci si dimenticava che possedevano anche loro una preziosa umanità che aveva
bisogno di cure e di amore, che dal loro squallido fiotto traboccante di verità
si poteva distillare una goccia di essenza poetica (Janet Frame “Dentro il
muro” pag. 93). Ecco la verità alla base dell’esclusione sociale: la
diversità che spaventa perché non omologata né omologabile, una difformità che
affatica l’altro per lo sforzo di conoscere, la disuguaglianza sancita dalla
malattia che è più facile liquidare con farmaci, relegare in ambienti ristretti.
La paura atavica della follia è un nonsenso dal momento che essa è in realtà un
aspetto radicale della vita umana caratterizzata da un’estrema fragilità, da
desiderio di dialogo, di colloquio, di incontro con l’altro diverso da sé. Non
dobbiamo scordare che nella follia sono presenti tutte le sensibilità che la
vita quotidiana ha represso e le violenze, molto più rare che nella popolazione
generale, sono sempre in risposta a comportamenti inadeguati e schizofrenici
dei normali.
Mi sveglierò e non
avrò il controllo di me stessa. Ho visto gli altri, come bagnano il letto, come
i loro volti sono vaghi e sperduti, con una riserva di sorrisi irreali per i
quali non esiste richiesta. Sono “riadattata”: è quella parola che si usa per i
casi di lobotomia. Riabilitata. Adattata, con la mente tagliata e cucita per
adeguarla agli usi del mondo (Janet Frame “Dentro il muro” pag. 183). La
legge 180 ha bandito la lobotomia, intervento che prevedeva l’asportazione
delle connessioni da e per la corteccia prefrontale. Da questo punto di vista
la coscienza collettiva è salva ma chiediamoci quanta inadeguatezza sia ancora
presente nei trattamenti abilitativi messi in campo da strutture pubbliche e
private a favore di persone con disagio psichico. Si realizza un appiattimento
cognitivo che conferma l’errata convinzione che non sia possibile un
miglioramento. Allontanata definitivamente la pratica chirurgica, la società ha
sostituito la lobotomia con l’abbandono, con attività quotidiane prive di senso
e condotte da persone incompetenti assurte al rango di educatori e qualificate
come dottori, con proposte di vita alienanti circoscritte in ambienti che
riproducono, in piccolo e con altri nomi, i manicomi chiusi con clamore
mediatico.