Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

venerdì 24 febbraio 2012

Signore e signori, da questa parte per il gas

La lettura di “Da questa parte per il gas” di Tadeusz Borowski induce a riflettere sull’uomo, su cosa può diventare in situazioni critiche portando alla luce la sua animalità, della quale spesso dimentichiamo l’esistenza, nascosta da strati di condizionamento religioso e sociale.
L’uomo è un animale spesso pensante e certe situazioni, che non trovano altra definizione che come orrori, rientrano pienamente in un comportamento assolutamente logico volto alla mera sopravvivenza quando tutto è ormai perduto.
Ho spedito mio padre al camino. Era arrivato con un trasporto, mi ha visto davanti alla camera a gas, io spingevo avanti la gente, e mi si è gettato al collo, ha cominciato a baciarmi e a chiedere cosa sarebbe successo, a dirmi che aveva fame, perché erano due giorni che viaggiavano senza mangiare. E proprio in quel momento il Kommandoführer urla di non rimanere impalati, che dobbiamo lavorare! Che dovevo fare? “Vai, padre mio” gli ho detto. “Vai nelle docce a lavarti e poi parleremo. Vedi bene che ora non ho tempo” E così mio padre è andato al gas.
In tutto il libro serpeggia questo senso di ineluttabilità che trascina l’uomo a compiere atti atroci senza prenderne pienamente coscienza per non cadere in una follia senza ritorno.
Com’è possibile che nessuno gridi, nessuno gli sputi in faccia, nessuno gli salti alla gola? Domanda che sembra non avere risposta e che frantuma ogni certezza riposta sull’idea della superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali per una serie di motivi dei quali si sono scritti volumi su volumi. Assistere impotente a qualcosa che non ha una giustificazione etica probabilmente ha spinto Borowski a suicidarsi a soli 29 anni, lasciando pochi e significativi scritti.
Su questa opera sono state dette tante cose, sia dal punto di vista stilistico che di contenuti, ma quello che più risalta è la capacità dell’essere umano di trasformarsi in un cannibale acefalo, dove ogni remora, ogni freno inibitore, viene facilmente superato tanto da rendere indistinguibile la vittima dal carnefice.
"Però la fame, quella vera, tu l'hai conosciuta, vero?"
"Dipende da cosa intendi per fame..."
"La fame vera è quando un uomo guarda un altro uomo come se fosse qualcosa da mangiare. Io una fame così l'ho provata. Capisci?"
Più avanti in un racconto verrà descritto l’esecuzione di alcuni russi alla presenza di una folla di prigionieri ammassati e trattenuti come tante bestie in gabbia. La loro improvvisa  liberazione porterà ad una furia incontrollabile che richiederà l’intervento a colpi di bastone dei capo baracca per evitare l’infierire sui poveri resti.
L’ebreo estone che portava i tubi insieme a me – divenuto ormai un musulmano – per l’intera giornata con gran fervore cercò di persuadermi che il cervello umano ha un sapore così delicato che lo si può mangiare crudo, senza bisogno di cuocerlo.
L’olocausto è stato un evento terribile che ha scosso la coscienza comune, ma di esso siamo tutti colpevoli, sia chi ne ha preso parte attiva che chi ne ha ereditato la colpa dell’indifferenza, così come è stato per il peccato originale. Mi chiedo se la presenza di situazioni economiche e sociali simili possa innescare un’uguale follia collettiva nella quale hanno trovato la morte milioni di persone, alcune di esse totalmente indifese, ma che pesavano sul bilancio generale della comunità. Adesso come allora si riaffaccia il termine di spesa improduttiva.
Non è possibile pensare che nessuno sapesse cosa avveniva all’interno di quegli edifici, che accoglievano giornalmente veicoli dai vetri oscurati, e che si dicevano rivolti alla cura delle malattie genetiche e mentali. E’ difficile spiegarsi l’assoluta indifferenza nei riguardi di ciò che avveniva nelle immediate vicinanze; la curiosità fa parte di noi come diretti discendenti delle scimmie.  Possibile tanta virtù e discrezione? Parliamo però di un mondo invisibile, confinato ai margini della società; esiste ed è poco importante finchè c’è abbastanza da mangiare e vivere bene, ma che diventa scomodo quando la crisi economica minaccia la collettività. A questo punto diventa un’inutile zavorra da abbandonare nelle mani di chi non ha alcuno scrupolo a fare il lavoro sporco per il bene collettivo. L’Olocausto farà parte del passato solo quando avremo preso coscienza delle sue logiche, altrimenti rischiamo di ricadere nuovamente preda del suo delirio.

lunedì 13 febbraio 2012

L'abitudine di esistere

Non tutti sanno chi è Kenzaburo Oe, cosa abbia scritto, ancora meno che abbia ottenuto nel 1994 il premio Nobel per la letteratura.
Il libro “Una famiglia” può essere considerato contemporaneamente un diario, un saggio e un romanzo, incentrato sulla vita di suo figlio Hikari, nato con una grave malformazione cerebrale che ne ha fortemente condizionato la capacità cognitiva e relazionale

Come sarebbe la nostra famiglia se Hikari non fosse stato reso un suo elemento indispensabile? La immagino senza gioia, solo percorsa dal vento freddo della desolazione; e probabilmente, dopo averlo rifiutato, i legami tra i suoi membri sarebbero diventati più fragili.

Si deve partire da questa affermazione presente a metà del libro per capire sia il titolo dell’opera che il percorso personale e artistico dell’autore.
Sul primo ognuno di noi può ritrovarsi, per il secondo la tragedia di un figlio disabile apre la mente ad un’analisi diversa del quotidiano e di tutta la realtà che ci circonda. Ne è un esempio Ennio Flaiano con quel suo modo di guardare la vita con grande acume, spogliandola di ogni orpello per descriverla nella sua cruda verità e riuscendo con ciò a farci sorridere, più o meno amaramente.
Essere un grande scrittore e vivere accanto alla disabilità non sono sempre compatibili; almeno all’inizio.

Ci vuole una certa dose di coraggio – e di coraggio venato di amarezza – per ammettere che ci sono stati e ci sono momenti in cui qualcuno nella mia famiglia non riesce a controllare la rabbia nei confronti di Hikari; e mi riferisco soprattutto a me stesso.

Si capisce che non deve essere stato facile congegnare le proprie aspirazioni con il mestiere di genitore. Kenzaburo Oe non è l’unico ad aver parlato di abitudine a scrivere quale fattore importante per la riuscita artistica di un’opera letteraria

Capita talvolta che mi chiamino per andarlo a prendere quando sono concentrato nella lettura di un libro o mentre sto lavorando alla prima stesura di un romanzo

Cosa significa doversi fermare ogni volta perché c’è qualcos’altro che richiede attenzione? Come ci si sente quando non si riescono a raggiungere gli obiettivi prefissati? La frustrazione è palpabile in alcuni passaggi del libro, ma viene ad essere superata dalla scoperta di una vena artistica anche in Hikari. Tale padre, tale figlio: uno usa le parole per comunicare emozioni, l’altro le note

Se non avesse iniziato a scrivere musica, probabilmente io e la mia famiglia saremmo rimasti per sempre ignari del delicato mondo nascosto nel suo intimo

Hikari è un compositore di musica classica, fortemente influenzato da Beethoven e Chopin prima, e da Mozart e Wagner dopo. E’ il salto di qualità che mette pace nell’animo di un genitore del calibro di Oe.
La nascita di un figlio disabile ti catapulta in un mondo di cui non conosci la lingua, gli usi e i costumi; devi ricominciare da zero, dalle macerie di ogni aspirazione. L’essere uomo e l’essere artista vengono ad essere cancellati, non esistono più; al loro posto solo il vuoto che porta alla disperazione di non riuscire più ad essere, a comunicare. Nel momento in cui vengono forniti ad Hikari gli strumenti che gli consentono di esprimersi, ecco che la farfalla riesce ad uscire dal bozzolo e mostrare la bellezza delle sue ali.
Che piaccia o meno, che trovi estimatori obiettivi o influenzati dal suo essere diverso, la musica di Hikari ha lasciato un segno; ed è questo lo stupore che ha colpito i genitori e i musicisti che si sono offerti di eseguirla.
E’ indubbiamente una storia a lieto fine, grazie all’impegno fisico ed economico di tutta la famiglia Oe. Non posso non pensare a tanti altri casi che non hanno avuto le medesime opportunità, sia per mancanza di soldi che per incapacità dei genitori a sostenere un simile carico di responsabilità. E’ una sconfitta per noi tutti, non solo delle istituzioni. Basta fare lo scaricabarile! L’affermazione di Flannery O’Connor, pur nella sua crudezza, è purtroppo vera

L’atteggiamento sentimentale nei confronti dei bambini portatori di handicap, che implica il tentativo di tenere loro e la loro sofferenza lontani dagli occhi della gente, è paragonabile alla mentalità che ha portato ad alimentare il fumo nei forni crematori di Auschwitz

C’è ancora tempo per fermarsi.

venerdì 3 febbraio 2012

Sbatti la disperazione in 192 pagine

Ho letto ben due volte il libro di Massimiliano Verga “Zigulì – la mia vita dolceamara con un figlio disabile” edizioni Mondadori. Non volevo basarmi solo ed unicamente sulle emozioni suscitate dalla lettura delle sue riflessioni, spesso brevissime, quasi zen nella loro drammaticità. Ho cercato di leggere il tutto sia con gli occhi di una madre di una ragazza disabile, che con quelli di chi legge da quando ha imparato a farlo.
Continuo a pensare che quest’opera sia frutto di una furba operazione editoriale in un periodo storico e sociale estremamente importante. I tagli ripetuti alla sanità e all’assistenza, ormai delle vere e proprie sforbiciate senza senso della peggiore tradizione di film horror, hanno cominciato a risvegliare dall’annientamento emotivo migliaia di persone che convivono con la disabilità ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno della loro vita.
L’arte ha sempre curato l’anima; è un transfert ottimale in situazioni di estremo disagio e, in questo caso, Melpomene ha potuto esercitare a pieno la sua funzione, ma in certi passaggi non riesco a ritrovare la mia esperienza, anche quando la disperazione era così forte che potevo percepirla sotto forma di dolore fisico. E’ forse qui che si realizza la piena divisione tra sessi? Tra essere madre e essere padre?
Non penso di avere mai sentito una mamma affermare Se potessi avere cinque centesimi per tutte le volte che mi fai incazzare, avrei tanti di quei soldi che potrei mantenere l’intero quartiere in cui vivo. Mentre, se potessi avere cinque centesimi per tutte le volte che mi hai reso felice, forse potrei comprarmi un gelato. E’ vero, ci sono state madri che hanno ammazzato il proprio figlio ma, al di là di questi casi, frutto di solitudine sociale, affermazioni come questa sono una forma di inutile masochismo, di ricerca di consenso, forse studiata a tavolino.
Il libro vuole essere una brutta copia di “Dove andiamo, papa?” di Jean Louis Fournier, regista francese che ha avuto due figli con disabilità mentale complessa, ma che è riuscito ad usare l’ironia per descrivere situazioni difficili. Le sue battute suscitano un sorriso, talvolta una risata, ma mai imbarazzo come davanti a frasi tipo Sei come un rubinetto che perde: funzioni male e dai fastidio.
L’operazione editoriale è volta solo a suscitare scandalo, passando sopra alla dignità di questo padre ancora in balìa dello choc emotivo e non so se indignarmi più per questo o per le tante banalità che si sono dette e scritte su come sia stato coraggioso l’autore a mostrarsi in questa sua fragilità. Sono certa che fra qualche anno non sarà più sicuro di quello che ha scritto e messo in piazza e sarà difficile cancellare un tale documento. Purtroppo ci sono sempre i reminders!
La letteratura è ricca di opere che hanno attinto all’esperienza di vivere accanto alla disabilità: Giuseppe Pontiggia, il premio nobel Kenzaburo Oe, Giancarlo De Cataldo, giusto per dire i primi che mi vengono in mente.
I loro romanzi sono carichi di drammaticità, del loro senso di inadeguatezza nel rapportarsi con il figlio disabile, del loro difficile percorso di padre
Ci vuole una certa dose di coraggio – e di un coraggio venato di amarezza – per ammettere che ci sono stati e ci sono momenti in cui qualcuno nella mia famiglia non riesce a controllare la rabbia nei confronti di Hikari; e mi riferisco soprattutto a me stesso (tratto da “Una famiglia” di Kenzaburo Oe)
Non c’è bisogno di aggiungere altro. Chi ha un minimo di sensibilità va oltre allo scritto e realmente veste i panni dolorosi di questo padre. Viene messa a nudo la debolezza umana e istintivamente se ne ha rispetto, ci si mette in sintonia empatica, mantenendo il distacco del riserbo.
Dire che il proprio figlio ha il cervello di una Zigulì arricchisce solo la casa editrice; e di questo me ne dispiace molto per Massimiliano. Ma anche per Moreno