Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

martedì 17 dicembre 2013

Il sosia


Ogni volta che leggo, o rileggo, Dostoevskij prende maggiormente corpo la convinzione che sia stato il più grande scrittore di tutti i tempi da qualsiasi angolazione lo si voglia guardare.
“Il sosia – poema pietroburghese” fu accolto con freddezza dalla critica letteraria di allora che lo considerò una prova minore del grande talento dello scrittore. Chissà cosa volevano di più da questo che è, a tutti gli effetti, la migliore descrizione della schizofrenia che abbiamo. Il romanzo dovrebbe essere inserito tra i testi da leggere per l’esame di psichiatria perché avrebbe il duplice scopo di aumentare la cultura del futuro medico e porre lo stesso dalla parte del malato dandogli l’opportunità di vedere la realtà con un’altra ottica. La compassione, cum patior – soffro con, che è ormai così lontana dall’odierna ars medica e che guarda la malattia e non il malato.
Le prime novanta pagine descrivono la vita di Goljàdkin o, come lo chiama Dostoevskij, il nostro eroe, appellativo altisonante e forse leggermente ironico per un uomo semplice, alquanto servile che svolge il lavoro di impiegato, un Monsù Travet russo.
L’arrivo del suo doppio confonde anche il lettore che si chiede se si tratti di una semplice somiglianza. Con il progredire della storia diventa più chiara la follia ed è proprio qui che sta la grandezza di Dostoevskij, nei dialoghi e nei pensieri di Goljàdkin, in quel suo passare dalla determinazione alla remissione, al cambio di movenze, di gestualità che sono tutti enfatizzati dallo sguardo degli altri. Sono proprio i personaggi di contorno che sottolineano la follia e la mettono in luce anche allo stesso protagonista.
Il romanzo si chiude con il dottor Rutenspitz così come si era aperto quando il “nostro eroe” sente l’impellente bisogno di parlargli. Il dottore è come il confessore e tenergli nascosta qualcosa sarebbe stato sciocco, dato che era proprio il suo mestiere conoscere i suoi pazienti. Che dottore è? Nelle ultime battute della storia lo scopriamo perché per la prima volta parla con accento tedesco. È la brillante trovata per far capire che si tratta di uno psichiatra e non di un semplice medico. Il 1845 è l’anno di pubblicazione di questo racconto ed anche del testo più importante nel campo della psichiatria: “Patologia e terapia nelle malattie psichiche” di Wilhelm Griesinger in cui per la prima volta viene riconosciuta l’importanza delle cause psicologiche nell’insorgenza della malattia mentale.
La sua formazione indiretta in campo medico è quel quid che rende Dostoevskij inimitabile, come quando scrive Lo tormentava un’angoscia terribile…si sentiva così esulcerato che gli sembrava che qualcuno gli rodesse il cuore in petto
Che dire? Lo adoro!

domenica 10 novembre 2013

Luce dei miei occhi

Luce dei miei occhi di Zita Dazzi è un libro per ragazzi, almeno questa è l’indicazione dell’editore. In realtà è un libro che ogni genitore con figlio disabile dovrebbe leggere perché la storia narrata è vista attraverso gli occhi di un fratello.
Quando la disabilità irrompe improvvisamente nella vita di una famiglia, i genitori si trovano catapultati in un vortice di situazioni: incertezza, attesa, diagnosi, disperazione, azioni successive spesso caotiche per riportare tutto alla normalità. In questo bailamme ci si scorda dell’altro figlio, che è presente e vive impotente quello che succede attorno a lui. Anche la sua vita cambia, purtroppo. Di questo i genitori non sono sempre consapevoli, attenti a portare avanti una crociata che non ha mai fine.
Il figlio sano soffre anche più di quello disabile; vorrebbe vivere come i suoi coetanei ma non sempre ci riesce. La sua vita cambia e ben presto si trova a fronteggiare periodi bui legati alla malattia del fratello che sconvolgono l’iter giornaliero, se non quello settimanale o mensile. Mutano tante abitudini e si trova a sentire il peso di una responsabilità.
Nello storia Arturo ha di fronte due problemi: il nervosismo, le liti dei genitori, che vivono momentaneamente una specie di separazione in casa, e la malattia di Giovanni caratterizzata da una improvvisa cecità. Arturo è un adolescente che attraversa un periodo delicato della vita, quello dei primi amori, della costruzione del sé, dell’indipendenza affettiva e la disabilità del fratello lo rende vulnerabile, in bilico dall’esigere egoisticamente ogni attenzione al senso di responsabilità.
Il romanzo non ci dice cosa capiterà a Giovanni, se la sua malattia sarà curabile e meno; abbiamo solo la certezza che la famiglia riesce a trovare un’unione e che è sostenuta dalla vicinanza degli amici. E’ bello poterlo pensare come una favola  e avere sempre l’illusione del lieto fine. Forse è per questo che il libro è rivolto ai giovani: per non uccidere la speranza.

sabato 9 novembre 2013

Evelina e le fate

Ho letto questo libro a tratti, la sera prima di addormentarmi, in macchina in attesa di mia figlia, in cucina a guardia di pentoloni con le verdure da cuocere, e tutte le volte la magia del libro è riuscita a catturarmi e a trascinarmi dentro la storia, in questo microcosmo, in una terra di confine tra le Marche e la Romagna.
Evelina è la traghettatrice, la guida nelle vicende che interessano una piccola comunità contadina che accoglie un gruppo di sfollati. Siamo nella Seconda Guerra Mondiale, poco prima dell’arrivo degli alleati.
La Nera e la Scépa sono due fate, le amiche immaginarie di Evelina, il filtro attraverso il quale lei riesce a guardare la realtà senza averne paura, trovando spiegazioni possibili agli orrori di cui è spettatrice. Bastano poche pagine e diventano compagne di viaggio del lettore stesso; la loro presenza è sempre correlata con situazioni critiche, la Nera addirittura con la morte incombente. Trovarle nella narrazione aiuta il lettore ad affrontare le pagine successive in un crescendo di emozioni.
La struttura e la costruzione della storia sono i punti di forza di questo libro. Un altro grande merito dell’autrice è quello di avere usato il dialetto rendendolo comprensibile anche a chi non è del posto.
Le ultime pagine scorrono a ritmo serrato, si trova difficoltà a staccarsene, le parole volano, le fate sono intorno a noi, c’è l’orrore, il dolore, la disperazione, tutto il quotidiano viene spazzato via. Mia figlia chiama a gran voce, l’acqua di bollitura fuoriesce dai pentoloni allagando il piano di cottura, il telefono suona…ma la Scépa è lì, muove la mano come per prendere qualcosa e se la porta alla bocca. Poi fugge via verso il cancello dove c’è la Nera. Io le guardo allontanarsi, poi chiudo la porta e le seguo.

venerdì 25 ottobre 2013

Yellow birds

È il primo libro sulla guerra che leggo. Avevo trovato una recensione in rete accompagnata dall’elenco dei premi che ha già ricevuto: questo è stato sufficiente per comprarlo; poi l’incipit, quelle quindici righe fondamentali che caratterizzano l’opera, lo stile, l’anima stessa dello scrittore. È perciò stato amore viscerale.
La storia è di quelle che non lasciano indifferenti il lettore, certo immaginiamo quanto possa essere disumana, atroce, orribile la guerra ma sono solo pensieri sparsi, frutto di reportage giornalistici o di film che hanno fatto la storia del cinema.
Ricordo che dopo aver visto Platoon avevo pensato che, per esigenze di spettacolarizzazione, il regista avesse calcato la mano. Questo librò dà un’ulteriore testimonianza, come un coltello che affonda nella carne piagata.
I ragazzi affetti da disturbo post-traumatico da stress sono tanti e non c’è bisogno di andare a cercare tanto lontano. Quello che succede una volta ritornati a casa non è mai argomento di inchieste ed approfondimenti a mano che non succeda qualcosa di eclatante. A quel punto si accendono i riflettori e parte il grande circo mediatico che macina tutto, lasciando pochi scarti.
Yellow birds è un libro sulla pace perché la vittoria conquistata avviene sempre al prezzo di barbarie inimmaginabili, atti che nessun essere umano pensa di essere in grado di fare e che lasciano un segno indelebile, il tarlo che rode il cervello.
Quelli che tornano sono spesso morti, anche se ancora camminano

domenica 22 settembre 2013

Cuore debole

Sono ancora alle prese con il libro di Pamuk, “Il signor Cevdet e i suoi figli”, 700 pagine belle ed impegnative, ma questo non mi impedisce di leggere qualcos’altro nei ritagli di tempo.
Ieri, mentre aspettavo che la pasta bollisse, ho cominciato a leggere, e poi finito dopo pranzo, “Cuore debole” di Dostoevskij.
Rispetto ad altri suoi racconti, questo ha una struttura che si presta benissimo alla messa in scena teatrale (una ricerca veloce in internet me lo ha poi confermato).
Può la felicità essere causa di tormento dell’animo fino ad arrivare alla pazzia? E’ possibile soprattutto quando si è convinti di non meritarlo, di non essere all’altezza di una tale fortuna. Non posso non fare una piccola divagazione personale pensando a mia figlia Benedetta che, nonostante la malattia rara di cui è affetta, nonostante la disabilità visibile per centinaia di angiofibromi sparsi sul volto, ha una considerazione di sé che nessuna insinuazione od occhiata curiosa della gente è in grado di scalfire. Incarna al femminile la celebre frase del Marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un cazzo!”
Ma torniamo al racconto.
Vasja e Arkadij Ivanovič sono due amici. L’autore spiega fin da subito il perché dell’uso del diminutivo per il primo rispetto al nome intero, altisonante per il secondo. Indubbiamente esiste una differenza di ceto ma non è solo questo perché, vuoi per le espressioni gergali, vuoi per alcuni dettagli, si riesce anche solo con pochi indizi ad avere ben chiara nella mente la loro fisionomia. Si viene subito catapultati nella scena, nella casa dei due giovani e poi fuori per strada, insieme a Arkadij, alla ricerca di Vasja
L’amicizia tra loro è qualcosa di più; lo si evince dall’esclamazione più volte ricorrente in Vasja “Colombello mio!” e in altre frasi che si scambiano.
Che sia questa bisessualità uno dei motivi che spingono Vasja nel vortice della nevrosi? Io non lo escluderei.
Il giorno di Capodanno Vasja comunica all’amico di essersi innamorato e di volersi sposare. La notizia trova Arkadij impreparato, si percepisce la sorpresa e forse il disappunto ma la rassicurazione, quasi la richiesta implorante di Vasja di vivere tutti e tre sotto lo stesso tetto, lo rincuora.
Già qualcosa turba l’animo di Vasja; non lo si capisce immediatamente perché è un fiume in piena di parole ed emozioni. Dopo un po’ si scopre che la gratifica sul lavoro è il motivo principale della sua discesa nella follia. Il compenso straordinario avuto dal padrone viene vissuto come generosità nei suoi riguardi, non come ricompensa per meriti innegabili.
Il finale è immaginabile non certo nella malinconia di Arkadij che rimane solo, orfano del povero Vasja. Le ultime frasi sono dedicate alla fidanzata, che ha poca parte nella storia se non come innesco alla follia ed è con lei che si chiude il racconto
Dostoevskij rimane campione indiscusso nel tratteggiare l’animo umano, i suoi tormenti, le fini perversioni. Dopo essere stati trascinati nel delirio nevrotico di Vasja e aver vissuto la solerte – forse eccessiva – sollecitudine di Arkadij, rimaniamo abbandonati ad una tristezza crepuscolare.

(Nonostante Dostoevskij, la pasta era al dente!)
 

 

martedì 17 settembre 2013

La donna è un'isola

La quarta di copertina strizza l’occhio al lettore che si aggira tra le tante proposte dei book stores senza sapere bene cosa comprare e spesso facendosi influenzare dalle brevi frasi sulla bandella che avvolge il libro. Se mi fossi soffermata a leggerne il breve riassunto, sarei andata oltre; per fortuna la mia scelta è frutto di un lavoro a monte di lettura e ricerca in blog e siti specializzati. E’ raro quindi che il libro mi deluda e che lo chiuda dopo poche pagine. E poi deve essere “tuttaltro”, il che non è semplice!
L’essenza di questo romanzo è all’inizio, in quel capitolo zero che merita una rilettura dopo essere arrivati alla fine. La storia mi è piaciuta molto per lo stile narrativo e l’ironia, presente soprattutto nella prima parte, quel descrivere e rapportarsi con un bambino sordo, figlio della sua amica mezza sciroccata che, in prossimità di un parto gemellare, pensa bene di affidarlo a lei; pur essendo una traduttrice e conoscendo quasi tutte le lingue del mondo, la protagonista è completamente all’oscuro del linguaggio dei segni e per la prima volta si trova a non capire e a non farsi capire.
Parlare di disabilità con ironia non è semplice. Per poterlo fare senza cadere nel ridicolo e nel macchiettistico, occorre essere stati già travolti dal dolore, dalla disperazione più vera, dall’ammissione della propria fragilità, per risalire la china e estraniarsi da tutto il contesto, ponendosi in alto a guardare quell’io dibattersi nel quotidiano, senza più avvertire la benché minima sofferenza e riuscendo a trovarne il lato comico. In questo ambito Jean-Louis Fournier rimane un campione indiscusso.
“La donna è un’isola” (e io mi sento parte di un più vasto arcipelago) è il racconto di un viaggio, vero e metaforico, alla ricerca e comprensione di sé, nelle peggiori condizioni possibili: un bambino disabile con grossi problemi di comunicazione, una natura selvaggia e impervia da attraversare, il “ricicciare” del ex-marito deluso dalla donna con la quale ha avuto una figlia, altri uomini incontrati durante il percorso (tre in poco più di trecento chilometri), una madre che non manca di consigliarla secondo lo standard non accettando il fatto che anche sua figlia è in qualche maniera diversa. 
Nel libro ci sono spesso riferimenti al cinema italiano e alla mediterraneità in genere: si parla di Fellini, di “La vita è bella”. La cosa non dovrebbe stupire se come popolo fossimo coscienti del grande patrimonio culturale che possediamo, ma spesso occorre che qualcun altro ce lo faccia capire per far riaffiorare l’atavico orgoglio
Bellissimo il passo in cui viene fatto un paragone tra il bambino e due aspetti del ruolo dell’attore Certe volte Tumi se ne rimane seduto immobile per un tempo indefinito (…) Fa pensare a un attore impassibile dei tempi del muto, poi invece eccolo trasformarsi in un mimo da paesi mediterranei, con l’espressione del viso che cambia cento volte al secondo, le mani a comporre figure che io ancora non sono riuscita a imparare. Solo così poteva essere descritta la frenesia che prende chi è sordo dalla nascita e vuole comunicare con il mondo. In questo ne ho un ricordo chiaro che risale alla mia infanzia e all’amicizia con una bambina sordo-muta.
Questa scrittrice, dal nome piuttosto complicato, è una voce nuova nella letteratura che non mancherò di seguire.

sabato 7 settembre 2013

Wonder: sei un fenomeno!

Ancora una volta la casa editrice Giunti esce con un libro veramente bello, a partire dalla copertina con quella bandella che diventa un comodo segnalibro.
Il progetto editoriale nasce dopo l’incontro dell’autrice con una bambina affetta da una malattia rara: la disostosi mandibolo-facciale che provoca una grave deformazione del volto.
Si trovava al parco con il figlio più piccolo; appena l’ha vista, d’istinto, si è allontanata per paura che il bambino si potesse spaventare o, peggio, dire qualcosa. Alle sue spalle ha sentito la mamma della ragazzina che diceva che era giunto il momento di andarsene con la calma e forse la rassegnazione di chi subisce comportamenti del genere ogni giorno della propria vita.
La storia è quella di August che per la prima volta frequenta una scuola pubblica. Finchè aveva potuto, la madre gli aveva fatto da insegnante ma, all’arrivo delle medie, aveva deciso, non senza tante incertezze e ripensamenti, che era giunto per lui il momento di stare con gli altri.
Il suo inserimento sociale viene raccontato da diversi punti di vista, compreso quello di August stesso. Lo stile narrativo abbraccia intere generazioni e il romanzo è veramente per tutti, grandi e piccoli. Le varie voci narranti permettono di poter trovare quella più vicina al nostro sentire.
Personalmente ho ritrovato molti punti in comune con Olivia, la sorella, divisa sempre tra sentimenti contrastanti: l’amore viscerale per il fratello e l’insofferenza di doversi trovare accomunata allo stesso destino di discriminazione sociale. Non è facile per un’adolescente e ancor meno per una donna di 54 anni.


 

giovedì 29 agosto 2013

Forse sogno di vivere, ovvero come sopravvivere all'orrore


Il 15 aprile 1945 il campo di Bergen Belsen venne liberato dagli alleati. Ospitava 40.000 prigionieri stipati in 200 capannoni, ognuno dei quali poteva contenere solo 100 persone; invece più di 1000 erano letteralmente buttati lì a morire di fame, tra i liquami delle loro feci e quelli dei cadaveri in decomposizione.
Circa 4000 prigionieri erano malati, colpiti dal tifo, ma ne morirono più di 11.000 nelle due settimane successive alla liberazione perché non più abituati ad alimentarsi; il carico proteico e calorico di una semplice zuppa di latte e patate non era sopportato da un corpo che era privo di cibo e acqua da settimane (altro che i sei giorni dichiarati dalle SS!).
Il libro “Forse sogno di vivere” è la testimonianza di Ceija Stojka che all’epoca aveva 11 anni e si trovava lì da soli 4 mesi: fu probabilmente questo la sua salvezza.
Non voglio farne la recensione perché rischierei di cadere nella retorica e nel ridicolo. Mi limito a inserire i brani che mi hanno più colpito, lasciando ad ognuno la riflessione.

Non appena fummo arrivati dietro quel filo spinato, che era nuovo di zecca e scintillava al sole, il nostro sguardo fu catturato subito dai morti. Col petto squarciato, erano stati scavati all’interno, avevano solo le costole e la pelle, erano completamente privi delle interiora, che cioè erano state strappate da altri esseri umani, e quegli altri esseri umani li avevano mangiate

Se non ci fossero stati i morti ci saremmo assiderati. Mia madre ha detto: «Meglio infilarsi tra i morti, non c’è vento e tanto tu non hai paura!» Dunque mi ci sono infilata, la testa all’esterno e i piedi all’interno. Faceva un bel caldo, lì in mezzo.

Abbiamo mangiato anche stringhe e inghiottito terra. se non c’è più niente mangi tutto, anche dei vecchi stracci (…) La maggior parte delle donne non avevano più coperte perché si erano mangiate l’ultima che avevano.

Ho ricavato l’acqua dal filo spinato. Hai visto la goccia, la raggiungi con la bocca e non appena hai in bocca la prima, si è separata dalle altre e ci è scivolata la successiva. Un sorso succoso, bello. Ha fatto così la maggior parte delle donne. Altrimenti non saremo riusciti a sopravvivere.

E’ strano, ma io ho provato compassione anche per i nazisti. Erano esseri umani pure loro. E il sangue ha circolato nel loro cuore proprio come nel nostro. L’unica differenza è stata che da noi ha circolato un po’ più velocemente perché abbiamo avuto sempre paura.

«Credi che questi siano individui normali?» ha detto. «Ma mamma, non sanno niente di quello che è successo!» ho detto io. «Non ci credo» sono state le sue parole «è impossibile! L’odore deve essergli arrivato!»

mercoledì 28 agosto 2013

La banda degli invisibili

Alcune volte è bene stravolgere gli schemi.
Tuttaltrilibri nasce dall’esigenza di far conoscere storie particolari, di autori più o meno noti, spesso fuori dai normali circuiti librai-circoli-blog; sono storie di difficoltà, sofferenza, discriminazione, mancanza di libertà e questo libro di Fabio Bartolomei merita di farne parte perché racconta una fetta della popolazione che vive nell’ombra, dimenticata ed esclusa perché ritenuta inutile.
“La banda degli invisibili” è un romanzo delizioso e molto divertente. Dopo tanti anni, precisamente dalla lettura de “La concessione del telefono” di Camilleri, mi sono ritrovata a ridere fragorosamente in pubblico, mentre ero nella sala d’attesa di un medico. Credo che questa mia reazione spontanea sia stata la migliore pubblicità possibile e sono certa che qualcuno sia poi corso in libreria.
La storia è paradossale, ma non impossibile. Un gruppo di anziani, alcuni ex-partigiani, di quelli che hanno lottato per un’Italia che non li rappresenta più, decide di rapire Silvio Berlusconi per potergli estorcere delle scuse pubbliche, una lunga lista che comprende anche la ritrattazione della sua fama di grande amatore.
Il piano viene studiato nei dettagli e spesso modificato; la sua preparazione li impegna per gran parte della giornata: già solo questo basta a farli sentire vivi. Cominciano con il seguire una dieta, fare attività fisica e uno di loro, come fioretto - c’è ancora qualcuno che li fa! - smette di bere.
Angelo è la voce narrante e il progressivo riscatto nei riguardi dei parenti che lo considerano un vecchio rimbambito e lo vanno a trovare raramente è scandito dalle modifiche del testamento. Migliori sono consapevolezza e autostima, meno viene lasciato loro in eredità.
La bravura dell’autore è stata quella di aver rappresentato fedelmente l’universo della terza e anche della quarta età. Esilaranti le gag messe in atto contro privilegi, arroganze e malcostume in genere. Fantastica l’idea di spedire al padrone la cacca del cane lasciata sul marciapiede o nei giardini pubblici (quasi quasi ci faccio un pensierino!)
Mano mano che procedevo nella lettura ho ritrovato molti atteggiamenti che vedevo in mio nonno, prima, e mio padre, dopo. Entrambi avevano fatto la guerra combattendo per ideali che non hanno più ritrovato nelle generazioni successive, compresa la mia.
A distanza di anni mi sento di condividere molti dei loro pensieri e qualche volta mi è sfuggita la frase “Ai miei tempi…”
Mi devo preoccupare?


mercoledì 14 agosto 2013

E' più tardi di quanto credi


La bellezza di internet, per chi come me ha frequentato biblioteche e consultato cataloghi alla ricerca di libri e pubblicazioni, risiede nella possibilità di trovare, con un semplice click e stando comodamente a casa con le pantofole ai piedi, romanzi ormai introvabili se non in piattaforme mondiali di libri antichi e usati.
Di Gilbert Cesbron, scrittore di ispirazione cattolica, avevo letto da ragazzina “Cani perduti senza collare”, rimanendo profondamente colpita. Forse è proprio da lì che è partita la mia scelta di ricercare storie particolari, controcorrenti, che sapessero descrivere bene, in pienezza, ogni emozione senza tirarsi indietro, avendo il coraggio di dare anche parte di sé.
“E’ più tardi di quanto credi” è un romanzo pubblicato nel 1967 e che affronta il problema dell’eutanasia; sicuramente una scelta coraggiosa, oltre che difficile per chi deve congeniare un credo con la realtà della vita.
Il matrimonio di Gianni e Gianna è apparentemente felice, mancherebbe solo un figlio ma è una decisione che imporrebbe la re-iscrizione della loro unione con Gianni in un ruolo di maggiore responsabilità.
Questo loro idillio viene ad essere minato nel profondo dalla scoperta di Gianna di avere il cancro al seno. Comincia così una terribile recita, con lei che si sente colpita nella sua più profonda essenza (ricordo che nel 1967 si operava una mastectomia radicale senza ricostruzione) e mantiene questo terribile segreto con la complicità di Gianni che è a conoscenza di tutto e rifiuta di considerare l’eventualità di perderla.
Aggredita dal male, Gianna tenta il suicidio prima che il cancro possa trasformarla in una larva. Viene salvata in extremis dal marito ma comincia ad insinuarsi in lui l’idea di assecondarne la richiesta di eutanasia. Gianni entra così in un vortice. Per la prima volta si trova a dover decidere senza demandare ad altri e sceglie il male minore per lui o la soluzione più giusta, dipende da che parte si voglia leggere questo finale, se con spirito cristiano o laico. Tormentato dai sensi di colpa, cercherà un sollievo nella giustizia umana ma sarà solo con la fede e con il soccorso ai malati terminali che ritroverà la pace.
Bellissimo romanzo per l’audacia di raccontare un problema che ra tabù in quegli anni. La parola cancro veniva solo sussurrata, mai detta apertamente per paura di esserne colpiti. Si moriva, e ancora si muore, per una lunga malattia o per un brutto male e parlare di morte dignitosa nel lontano 1967 rende questo lavoro meritevole di una riedizione.
 

 

lunedì 5 agosto 2013

N.P.


N.P. Non Piace. Questo è forse l’acronimo più giusto per me. Certo, non si mette in discussione la scrittura, ma il contenuto che lascia un po’ interdetti.
Si parla di un manoscritto, North Point, che sembra avere un’influenza nefasta su coloro che tentano di tradurlo, di leggerlo e di metterci mano, spingendoli al suicidio. Il perché capita questo rimane un mistero per tutto il romanzo.
Nella storia sono mescolati vari argomenti che sembrano buttati lì a caso, solo per stupire e, magari, scandalizzare. Si parla di omosessualità, di incesto, di amore, di morte. Tutto insieme, con sullo sfondo una trama che vorrebbe essere “thrilleggiante”, ma il cui risultato non è quello voluto.
La narrativa giapponese si ama o si odia, non ci sono mezze misure. Personalmente adoro la capacità descrittiva di Mishima che raramente si ritrova in autori occidentali con quella grazia ed eleganza. Pura poesia. In Banana Yoshimoto sono evidenti le influenze americane e questo mix non sempre funziona. E' una di quelle volte in cui, all'ultima pagina, ho chiuso il libro senza che sia rimasto niente da ricordare, né una frase, né tantomeno un concetto
 

sabato 3 agosto 2013

Due piccoli passi sulla sabbia bagnata


227 pagine lette in una notte, incollata alla sedia e commossa fino alle lacrime in un paio di situazioni.
Per chi conosce la sofferenza e la maledizione di procedere un passo alla volta, senza preoccuparsi di quello che verrà dopo, né tantomeno ricordare tutto quello che è stato prima, questo libro colpisce in alcuni passi, quelli nei quali siamo ancora lontani da quella invidiabile serenità, conquistata a prezzo di tante lacrime.
Dal punto di vista narrativo, il libro scorre veloce e i termini medici sono inseriti quel tanto che consente di capire meglio la situazione, senza strafare perché questo è un libro sull’Amore, questo sentimento così tanto celebrato, spesso in maniera completamente errata.
Amore significa anche lasciare andare, non trattenere. E’ una cosa molto facile a dirsi più che a farsi, soprattutto quando si è davanti all’ineluttabilità di una diagnosi che non lascia speranze. Allora è Amore decidere di dare più vita ai giorni che giorni alla vita. Questa frase risuona diverse volte nella narrazione e mi piace, la condivido in pieno. Bisognerebbe scriverla e appenderla in un posto in modo da averla sotto gli occhi ogni giorno della nostra vita.
Dei tanti libri che raccontano di storie difficili accanto alla malattia e alla disabilità, questo è uno dei migliori perché c’è la semplice storia senza l’autocompiacimento della sfortuna che pone l’Eletto tra la schiera degli Intoccabili.
Si viene portati per mano nelle stanze di questa famiglia e se ne condivide il quotidiano anche nei momenti di sconforto e rabbia che ci sono e sono tanti.
Chi si cimenta nella scrittura autobiografica cade nell’errore di farne la bella copia, mentre sono molto più importanti ed intensi tutte le cancellazioni, gli errori, gli strafalcioni, proprio perché nessuno di noi è fatto per la sofferenza.
L’accettazione di tutti gli aspetti della vita avviene al prezzo di tante lacrime e disperazione che devono essere narrate con l’umiltà di chi riconosce i propri limiti, proprio perché, riprendendo le parole di Kim Stagliano, madre di tre ragazze autistiche, non si è Madre Teresa di Calcutta
 

mercoledì 24 luglio 2013

Quando tornerai


La casa editrice E/O da sempre pubblica libri particolari, che raccolgono consensi tra coloro che veramente vogliono leggere altro e godono quando la narrativa è di qualità, fuori da ogni schema e logica di marketing.
“Quando tornerai” è il racconto di una amicizia che diventa ancora più importante e radicata nelle viscere dei due protagonisti principali dopo un incidente che sprofonda Hannes in un coma dal quale riemerge parzialmente, grazie proprio alla cura costante di Uli.
La struttura è quella di un epistolario che Uli scrive quasi ogni giorno ad Hannes e per Hannes, in modo che, al possibile risveglio, possa scoprire tutto quello che era accaduto attorno a lui.
Pur essendo Hannes e Uli i protagonisti principali di questo romanzo, in realtà ci si trova di fronte ad un’esibizione corale dove anche il castagno fuori in giardino e il davanzale della finestra della camera di Hannes hanno la loro importanza nella storia, sottolineando l’atmosfera emotiva che si respira.
Il romanzo si snoda in diversi ambienti: l’ospedale dove è ricoverato Hannes, il “nido dei suonati” dove lavora Uli come volontario del servizio civile, la birreria dove si incontrano e si snodano alcune situazioni che nascono nella camera di Hannes e la casa sul lago che sarà compimento e inizio di vita.
Il libro è bello, molto ironico pur nella drammaticità delle situazioni che si svolgono nell’ospedale e nel “nido dei suonati”, intenso, asessuato, nel senso che l’autrice è stata particolarmente abile a non mettere nella storia il suo personale punto di vista.
C’è un finale, più o meno prevedibile, ma ci si arriva in un crescendo di emozioni, tanto da esclamare chiudendo il libro: “Bello!”

giovedì 18 luglio 2013

La collina del vento


Ho trascorso almeno metà della mia infanzia e giovinezza a Tropea tra colori e profumi che questo libro di Carmine Abate mi ha riportato alla mente. Sento ancora l’aroma di peperoni arrosto che si mischia con l’odore selvatico di certi antri di antichi palazzi nobiliari, mai toccati dalla luce del sole, oppure il chiacchiericcio indistinto del meriggio che si confonde con il frinire delle cicale.
Un romanzo epico che avvolge in un abbraccio l’esistenza di una famiglia calabrese, legata anima e corpo al Rossarco, una collina allungata a pochi chilometri dal mare Ionio.
Nascita e morte vengono ad essere rappresentate in questo luogo lungo un arco di tempo di quasi cento anni. Si comincia con il capostipite Alberto, scavatore in una miniera di zolfo, che aveva acquistato tutta la collina, fondo dopo fondo; c’è poi Arturo, con un grande segreto da custodire, Michelangelo, il primo della famiglia ad andare fuori a studiare e Rino, con l’ingrato compito di chiudere i conti in sospeso con la storia e la vita.
Il dialetto calabrese è presente in gran parte del romanzo senza per questo renderne difficile la lettura.
Bello, emozionante con un pizzico di suspence che non stona.
Per sempre è un'espressione effimera che racchiude la nostra voglia caparbia di perdurare nel tempo. Non esiste nulla per sempre, a parte le cose tangibili, ritenute erroneamente inanimate, come le pietre di fiumara, le montagne della Sila, il mare nostro, il vento. Per sempre è la collina del Rossarco

venerdì 12 luglio 2013

Chiedi alla luna


"Chiedi alla luna" è uno dei romanzi più belli che abbia letto da quando ho imparato a farlo.
Bello nella struttura, dove anche il cambio del carattere rientra nell'opera e catapulta il lettore nelle dinamiche contorte di una mente schizofrenica. Non appena si passa dal font classico di un libro di narrativa a quello caratteristico di una macchina da scrivere, è immediato il viraggio del sentire del lettore, si è veramente risucchiati nel vortice dell’ansia, dei pensieri incatenati alla ricerca di un senso che porti tranquillità.
L’incipit è di quelli fulminanti Meglio dirlo subito: non sono un bravo ragazzo come a mettere le mani avanti per tutto quello che verrà narrato subito dopo.
La morte del fratello, affetto da sindrome di Down, incide su tutta la famiglia portando alla superficie le varie fragilità.
Il senso di colpa per un atto che viene solo supposto per tutto il romanzo, spinge ogni componente a una reazione diversa. Nonna Noo è l’unica figura in grado di mettere ordine alle difficili dinamiche familiari, il personaggio forte che rimette insieme i pezzi di una famiglia travolta da un doppio dolore: la morte del primogenito e la malattia mentale reattiva del secondo.
Per certi versi il romanzo richiama alla mente “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon ma, a differenza di questo, non si impantana in situazioni stilistiche che rendono pesante la lettura.
L’uscita del libro di esordio di Nathan Filer è stata preceduta dal clamore suscitato in Inghilterra e dalla rapida vendita dei diritti di traduzione in ben dieci paesi. Per la prima volta posso dire che le attese non sono state disilluse.


 

martedì 2 luglio 2013

Nessuno sa di noi


E’ un bel libro, scritto bene, in cui la narrazione può essere divisa in due parti, sia come contenuto che come carico emotivo.
L’argomento è coraggioso, non tanto perché si parla di aborto, ma di aborto terapeutico effettuato al di là dei termini consentiti dalla nostra legge, tant’è che la protagonista l’effettua in Inghilterra.
La prima parte riguarda proprio di questo, dopo la scoperta che il feto è affetto da una malformazione che ne condiziona la crescita e lo sviluppo armonico. La seconda parte tratta invece delle conseguenze di tale scelta sia nella protagonista che all’interno della coppia. E’ questa seconda parte che risulta più vera, sentita dall’autrice che descrive bene le inquietitudini della psiche, il non essere sicuri al 100% di aver fatto bene, di non aver agito sulla scia emotiva di tutte le persone che ci sono accanto.
Le stesse emozioni mancano all’inizio e si apprezza come un blocco nel manifestare la disperazione, l’incapacità a capire il perché di un tale evento.
Questo, insieme a un finale che tende ad accontentare il pubblico, fanno di “Nessuno sa di noi” un romanzo indubbiamente ben scritto, con una buona idea di partenza ma che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo.
 

lunedì 1 luglio 2013

La mite, ovvero come scrivere senza strafare


Questa volta voglio parlare di un racconto: “La mite” di Fiodor Dostoevskij, il cui primo capitolo inizia con alcune note da parte dello scrittore per chiarire la definizione di “racconto fantastico” che lo caratterizza.
In realtà si tratta di uno stupendo monologo, fissato su carta come se ogni pensiero del protagonista fosse stato trascritto da un abile stenografo; ed è la presenza di questo stenografo, che immaginiamo nascosto nell’ombra, che risulta “fantastica”.
Già la premessa dà il senso di quello che verrà letto subito dopo e che si rifà ad un fatto di cronaca realmente accaduto.
Dostoevskij ha il grande pregio di descrivere le emozioni dei suoi personaggi senza strafare accompagnando per mano il lettore nei meandri della mente.
Il tutto ha inizio con l’immagine di un uomo davanti al corpo della moglie, morta suicida. Da lì partono i ricordi. Il protagonista, voce narrante, è proprietario di un banco di pegni; è attratto da una giovane, sua cliente, che vive con due zie anziane che la tiranneggiano. Decide di sposarla e inizialmente tutto sembra procedere per il meglio ma, di punto in bianco, cambia atteggiamento, diventando lui stesso una sorta di aguzzino.
I pensieri si susseguono e, con il progredire di questo monologo interiore, riusciamo ad avere nuove chiavi di lettura dei due personaggi. La giovane sposa, così come la Lolita di Nabokov, conscia del potere derivante dalla freschezza dell’età, diventa essa stessa una fine torturatrice psicologica. I ruoli si invertono, anche se per poco.
Dopo una lettura empatica, consiglio di riprendere in mano il racconto, analizzandone la struttura perché dà le basi fondamentali, utili sia alla narrativa che alla drammaturgia.

mercoledì 26 giugno 2013

Mi chiamo Chuck

L’incipit di un romanzo è la parte più importante, quella che identifica lo stile dello scrittore, la sua capacità di tenere incollato il lettore ad ogni pagina fino alla fine.
In questo libro è tutto molto chiaro da subito, non tanto per il numero di pratiche compulsive ma per la freschezza della narrazione, tipica di una certa classe di scrittori americani.
Si parla di adolescenza, di amicizia, di amore in quest’epoca che vede il web padrone assoluto della vita e della realtà, tanto che il sapere passa solo e unicamente da wikipedia. E’ tramite questa enciclopedia on line che Chuck, il protagonista, scopre di essere affetto da un disturbo ossessivo compulsivo che lo costringe a ripetere lo stesso gesto decine di volte per placare la sua ansia.
A ben leggere, le azioni di Chuck si collocano perfettamente nel quadro così paradossale dell’adolescenza dove convivono gli opposti, dove tutto può essere stravolto da un momento all’altro, dove la vita chiama a gran voce trovando spesso dei ragazzi insicuri e impauriti.
Chi non ha vissuto le stesse inquietitudini? Magari non si è girato per quattordici volte la combinazione dell’armadietto, ma sicuramente si è passati per la fase di lavarsi le mani più volte nella giornata o di alzarsi dal letto mettendo per terra il piede destro, come gesto scaramantico che avrebbe aiutato il favorevole svolgimento del quotidiano.
Chuck non è molto diverso dagli adolescenti di qualche anno fa tant’è che, anche per lui, l’innamoramento e l’amicizia saranno le chiavi che lo aiuteranno a superare le sue insicurezze.
Nel romanzo ci sono trovate molto divertenti: la sorella minore che lo ignora tanto da negargli persino l’amicizia su face book; la neuropsichiatra, di origine indiana, che indossa le sneakers e che parla in modo particolare dando sempre l’impressione di fare una domanda.
Si affonta anche il problema del bullismo, oggigiorno più pressante violento in quanto specchio di quello che viene proposto in televisione, elettrodomestico che, a differenza del passato, è acceso già dalla mattina presto e che vomita immagini e situazioni fuori di ogni controllo.
Il libro è piacevole e, per certi versi, ricorda il primo Woody Allen…e non solo per il disturbo ossessivo-compulsivo

lunedì 17 giugno 2013

Un mondo a parte


Ogni volta che leggo un libro che racconti la realtà in un campo di concentramento, ho le medesime emozioni, come se tutto quello letto in precedenza non avesse più valore, fosse una sciocchezza rispetto alle nuove atrocità che vengono descritte.
Mi chiedo sempre, senza avere mai una risposta plausibile, come sia possibile arrivare a tale crudeltà e come sia assurdo che nessuno abbia mai denunciato quegli orrori, se non i prigionieri stessi una volta scappati o liberati dall’inferno.
Questo libro è l’ennesimo che aggiunge nuove mostruosità ad un’idea che mi sono fatta di quel periodo infame.
L’autore venne arrestato dai sovietici mentre cercava di raggiungere la Francia e accusato di essere una spia al soldo dei tedeschi. Fu internato per due anni in un gulag a Kargopol, città situata all’estremo nord della Russia europea, dove le temperature sono proibitive per gran parte dell’anno.
Il libro racconta la vita all’interno del campo di lavoro e ogni capitolo, oltre a far conoscere gli altri prigionieri, raccontandone il passato e l’atroce presente, descrive alcuni posti chiave all’interno del gulag. Tra questi la casa degli incontri, un’ala del corpo di guardia dove era concesso ai prigionieri di trascorrere uno o due giorni con i loro parenti. La sua dislocazione era simbolica perché al confine tra la libertà e la schiavitù. Non era facile riuscire ad ottenere il permesso di avere la visita dei propri cari e, quando succedeva, i prigionieri erano obbligati a tacere le condizioni di vita disumane nelle quali erano costretti a vivere.
La casa degli incontri era arredata con un tavolo, alcune sedie, le tende alle finestre e due letti separati. Per alcuni il permesso aveva un’ulteriore tremenda clausola: l’incontro poteva avvenire solo di giorno, la notte il prigioniero ritornava nella sua baracca tra i miasmi fetidi di bocche cariate e piaghe suppurate.
L’ospedale era un altro luogo molto ambito, perché significava aver più da mangiare, un letto e la possibilità di riposarsi. C’era chi si auto mutilava, ma non sempre la cosa funzionava e, se l’incidente non era sostenuto da prove convincenti, il prigioniero rischiava altri 10 anni di internamento al campo. Quando venne proibita l’automutilazione, si trovarono altri sistemi. Un metodo diffuso era iniettarsi del sapone liquefatto: le secrezioni che ne derivavano assomigliavano a quelle delle malattie veneree. Lo stesso autore racconta di essersi esposto nudo e sudato alla temperatura di -35° per prendere la polmonite. Non manca il racconto di stupri, di ricatti, di violenze perpetrate sulle minoranze. Nulla conforta il cuore che soffre quanto la vista della sofferenza altrui.
La morte veniva invocata e cercata in vario modo, anche come ultimo atto di autodeterminazione.
 
Nelle quasi 300 pagine si viene risucchiati in un clima oscuro e tutta la lettura non conosce un attimo di colore e di luce. Un bel libro pieno di spunti di riflessione, da tenere sul comodino per aprirlo ogni volta se ne senta la necessità. Per non dimenticare, per comprendere, per perdonare.

 

domenica 2 giugno 2013

La donna che si immerse nel cuore del mondo


Sono le persone con abilità diverse quelle che apportano cose diverse all’umanità.

E’ uno dei tanti pensieri di Karen, la protagonista di questo romanzo, scritto in prima persona, nome che viene spesso sostituito con IO, presente già dalle prime righe, scandito in maniera monotona mentre, seduta su un telo rosso, si dondola davanti al mare.

Basta molto poco, non solo per capire che si tratta di una persona autistica, ma per entrare nella sua mente e cominciare a pensare come lei. In questo sta la bravura dell’autrice, Sabina Berman, quello di catapultare il lettore nella testa di un’autistica e vedere con più chiarezza la realtà senza le inutili sovrastrutture che cerchiamo di creare.

All’inizio Karen vive come una selvaggia in una vecchia casa abbandonata, che era appartenuta al nonno. Ha i capelli lunghissimi e incolti, le unghie ridotte ad artigli contorti, è sporca, piena di parassiti, non parla e si nutre di ciò che trova, anche la sabbia del mare. Una zia, che ha ereditato la casa e l’attività commerciale del nonno, si prende cura di lei. Ben presto scopre che, se da un lato c’è un ritardo mentale, dall’altro Karen ha grosse potenzialità, perciò impegna tempo e denaro per far emergere la farfalla dal bozzolo nel quale è prigioniera. Per prima cosa le insegna a parlare e poi a scrivere; incolla dei biglietti colorati con il nome scritto sopra su ogni cosa presente in casa e nel giro di poco le stanze sono tappezzate di etichette. Anche la zia, la domestica e l’autista hanno il loro nome attaccato sul petto, come una medaglia al valore.

Il passo successivo, vista l’esperienza poco costruttiva con una scuola speciale, è quello di trovare un’occupazione che sia vicina alle sue inclinazioni naturali e qui, come già con Temple Grandin, si manifesta l’estrema empatia con gli animali. Forse è proprio questo smaccato parallelismo con la vita della Grandin che fa perdere freschezza al racconto: sembra di leggere qualcosa di già sentito.

Per il resto il libro è bello, a tratti commuovente. Molti i passi che sospendono il lettore in una realtà nuova, come quando, per ritrovare serenità, si immerge in acqua e va a fondo attraversando gli strati di vario colore: prima il turchese, poi il verde, l’azzurro e infine il blu profondo. Qui si distende senza pensare più a niente, diventando parte del Tutto. Non è poi così straordinario: basta volerlo, ma il nostro essere “umani standard” non consente tanta spontaneità di gesti. E’ forse Cartesio con il suo cogito ergo sum ad averci rovinato? Per Karen il pensiero non può essere il discriminante dell’esistenza. Lei per prima cosa esiste e poi, solo a volte, con lentezza e difficoltà, e soltanto se strettamente necessario, pensa.

Leggere questo romanzo, al di là della storia, dà nuovi strumenti per capire la persona autistica e per trovare un punto di incontro nella comunicazione

domenica 19 maggio 2013

Il bambino invisibile

Ero piccolo, d’accordo. E sporco. Ma vivo, in carne e ossa. E sorridente. Eppure era come se non esistessi.
Dopo poche pagine non si può non restare attaccati alla storia di Manuel, bambino di appena 5 anni che ha vissuto esperienze che vanno oltre la fantasia e che sono tremendamente vere, purtroppo.
Tutto si svolge in un villaggio cileno a 200 km dalla capitale. Una vita misera, nel senso più profondo del termine, emarginato da tutti, bambini compresi, sottoposto a continue violenze fisiche da parte di un anziano che l’ha accolto nella sua altrettanto disgraziata famiglia, e che Manuel chiama nonno, alla ricerca di un affetto che nessuno riesce a dargli. Più volte, nel corso della lettura, viene il sospetto che la storia sia frutto di fantasia, proprio per le brutalità subite da questo bambino e che risultano inconcepibili per noi che viviamo in un’altra realtà; perciò la domanda che viene spontanea porsi è: possibile che nel 1981, quando già erano successe diverse cose in vari campi e lo stesso Cile si stava avviando a destituire il proprio dittatore, capitassero sistematici episodi di violenza su un bambino, uno dei tanti, da indurlo a vivere nella natura, come un animale selvatico?
E la successiva domanda è: possibile che il mondo occidentale non risponda alle richieste di aiuto che tutt’ora arrivano da paesi colpiti dalla carestia, dalle guerre, dalle persecuzioni etniche? Ancora non c’è una risposta. Tutto tace.
Il libro è scritto molto bene e si apprezza che la storia è entrata nelle viscere del narratore, semplice penna, anche se qualificata, al servizio della conoscenza e della catarsi del protagonista.
Mentre da bambini Kipling ci ha permesso di volare con la fantasia nella giungla indiana, desiderando di vivere una vita primitiva così come Mowgli, con Itard e Viktor, il ragazzo selvaggio, icona dell’autismo, divenuto oggetto di numerosi studi ed esperimenti, siamo precipitati nella realtà. E non è necessario essere in mezzo alla foresta.
Il bambino invisibile non è solo Manuel, ma sono tutti quelli che non rientrano in una delle numerose categorie del mondo occidentale e che, sistematicamente, releghiamo ai margini. La nostra violenza si esprime con l’indifferenza. Solo la natura è in grado di accogliere ogni diversità, senza averne paura perché ognuno ha il suo posto in un equilibrio che ha del Soprannaturale

sabato 11 maggio 2013

Mio fratello Simple

Delizioso veramente questo romanzo di Marie-Aude Murial che tratta di un argomento che spingerebbe a usare un registro più triste e serioso: la convivenza con una persona disabile mentale o, come direbbe il personaggio del libro, I-DIO-TA.
La storia è semplice, proprio come il soprannome di Bernabè, ragazzo di 33 anni anagrafici ma 3 mentali, che gira con un coniglio di peluche, il signor Migliotiglio, sua dissociazione schizoide. Il fratello, ancora minorenne, si oppone all’intenzione del padre che vorrebbe mettere Simple in un istituto, e lo prende con sé andando a vivere in un appartamento con altri studenti.
In questo microcosmo, riproduzione in scala ridotta della società, si manifestano tutte le emozioni possibili nei riguardi di un disabile mentale: l’iniziale rifiuto, la paura di farsi “contaminare”, l’indifferenza, l’ascolto, il riconoscimento e, come tutte le belle storie a lieto fine, l’inclusione come elemento necessario alla stabilità e crescita del gruppo.
I personaggi sono tutti magistralmente descritti, anche quelli minori come l’inquilino anziano che sembra detestare e non sopportare quella combriccola di cinque ragazzi e una ragazza («Che facessero i turni?») che, a suo dire, blocca sistematicamente lo svuota rifiuti condominiale con spazzatura voluminosa.
Il signor Migliotiglio è sicuramente la caratterizzazione che provoca maggiore ilarità, soprattutto in chi, come me, convive con un disabile mentale. La dissociazione schizofrenica e il successivo transfert sono elementi presenti come metodo per superare situazioni non facilmente incasellabili e perciò ansiogene in soggetti autistici. L’autrice descrive con grande efficacia questo aspetto senza cadere nel ridicolo o nella pena, sottolineando la sua importanza. Senza di esso, Simple non riuscirebbe a decifrare la realtà e ad adattarla alle sue esigenze.
Nel corso della lettura, quando ormai la struttura e il ritmo della narrazione ha catturato chi legge, non si aspetta altro che, nel bel mezzo di un momento difficile, spuntino le orecchio del signor Migliotiglio. E’ naturale il successivo passaggio di ricerca di una signora Migliatiglia e anche qui in maniera metaforica viene inserito un altro argomento importante e spesso tabù: l’affettività e l’amore per i disabili mentali. Simple non lo chiede direttamente per sé ma per il coniglio. La signora Migliatiglia entra in scena per poco. «E’ solo un peluche» afferma Simple, spingendoci a riflettere fin a che punto possiamo dire che un disabile mentale non capisca a fondo la realtà.
Il tema della diversità è ulteriormente ampliato dal personaggio di Zhara, ragazzina musulmana innamorata del fratello di Simple, anche lei con una sorella disabile.
Libro sicuramente da leggere, da regalare e da far leggere a scuola, accanto ai classici della letteratura, sia per i temi proposti in maniera diretta e chiara, che per la struttura narrativa, utile a chi vorrà poi cimentarsi con la scrittura

domenica 10 marzo 2013

Notte inquieta

Per leggere delle vere perle di narrativa spesso capita di dover ringraziare persone che si sono imbattute, più o meno casualmente, in libri in lingua originale e ne hanno subito capito il valore.
E’ il caso di “Notte inquieta” di Albrecht Goes, edito da Marcos y Marcos. Nelle prime pagine il ringraziamento della casa editrice a Claudio Oxoli, libraio in Milano, senza il quale non avremmo potuto fruire di questo capolavoro.
La storia si svolge a Proskurov, città ucraina, affollata di militari di passaggio. Qui vi giunge un cappellano protestante; ha il compito di assistere un condannato a morte. Si tratta di un giovane accusato di tradimento e diserzione ma che, alla resa dei conti, è solo un ragazzo catapultato, come tanti altri, in uno scenario assurdo quale è la guerra.
Di questa assurdità è pieno il romanzo. Non c’è bisogno di descriverne le operazioni militari; ci hanno già pensato i documentari e i saggi storici. Qui si racconta l’uomo, la sua solitudine, la paura, la mortificazione di trovarsi in situazioni totalmente estranee al modo di sentire di ognuno. E’ il caso del tenente a comando del plotone di esecuzione che nella vita civile era un pastore protestante. Come lui anche un professore di letteratura inglese con l’incarico di contare i prosciutti alla sussistenza; un esperto conoscitore di Orazio costretto a trascorrere le giornate scrivendo ricevute di panche, tavoli e secchi per le pulizie. La guerra annulla ogni dignità, distrugge la lingua, impone nuove regole.
E’ compito di ognuno di noi, non tanto di odiare la guerra, quanto di sconsacrarla, di toglierle ogni incanto, di dire che è solo sangue, pus e urina. Nient’altro. Solo così si può sperare che, a distanza di anni quando l’idea della guerra potrà ricrescere come la gramigna in un campo, qualcuno con una falce possa estirparla.
La storia del condannato a morte è speculare a quella di un capitano in partenza per Stalingrado. Anche lui è condannato a morire. Il primo trascorre la sua ultima notte con il conforto del cappellano al quale racconta la sua storia; il secondo riesce a riabbracciare la sua fidanzata.
In una notte tremendamente buia, oltre che inquieta, è possibile che l’amore, le parole sussurrate, gli abbracci, gli sguardi, il perdono, rendano più tollerabile l’inferno.

venerdì 1 marzo 2013

Gli idioti

Questa volta non voglio parlare di un romanzo, ma di un racconto: “Gli idioti” di Joseph Conrad, scritto nel 1896.
La trama, molto semplice, unisce due stili diametralmente opposti: il gotico con il quale l’autore descrive e caratterizza i personaggi, le emozioni profonde e uno stile di più ampio respiro usato per le ambientazioni.
Gli idioti sono quattro, molto probabilmente affetti da una rara malattia genetica che ne spiegherebbe l’esistenza.
“Altri idioti? Ma quanti ce ne sono?” chiesi
“Sono quattro – tutti figli di un agricoltore di Ploumar qui vicino…ma i genitori sono morti adesso”
Il racconto è totalmente intriso delle teorie eugenetiche sulle quali l’autore sembra essere d’accordo. Gli idioti, tra l’altro privi di nome, sono descritti come esseri deformi, dal comportamento animale, che vagano senza meta durante il giorno per poi ritornare a casa con il buio, così come fanno le bestie.
Li vidi molte volte nei miei viaggi per il paese. Erano sempre per strada, spinti qua e là dagli impulsi incomprensibili delle loro tenebre spaventose. Erano un oltraggio al sole, un rimprovero al cielo vuoto, una carie nel vigore denso e tenace del paesaggio selvatico.
Dopo un po’ di tempo dalla nascita dei due gemelli, nel padre si insinua il dubbio che qualcosa non vada, istigato dalle chiacchiere che sente in paese, frasi smozzicate dette a bassa voce. Più che confidarsi con la moglie, lo afferma come un automa davanti alla culla mentre i piccoli dormono, unico stato in cui non c’è differenza tra normalità e disabilità.
La nascita del terzo figlio sembra riaccendere la speranza nell’uomo. Solo lei è convinta, forse per un sesto senso tipicamente femminile o per l’esperienza accumulata con i gemelli, che anche questa volta il bambino sia malato.
Quel bambino, come gli altri due, non sorrideva mai, non le tendeva mai le manine, non parlava mai; nessun barlume nei suoi occhi scuri indicava che l’aveva riconosciuta.
Il pensiero di un castigo divino, per lui miscredente convinto, lo spinge ad andare in chiesa come a chiedere un miracolo che lo induca a cambiare atteggiamento nei riguardi dei preti e lo riporti sulla retta via.
Nasce una bambina ed è una doppia sconfitta: è femmina (non potrà essere d’aiuto nel lavoro dei campi) e anche lei è disabile.
Sospetto e colpa cominciano ad aleggiare tra marito e moglie; lei è fermamente convinta che l’irreligiosità del marito sia la causa di questa disgrazia senza fine e una sera lo ammazza. Va a casa della madre per chiedere conforto, solidarietà e aiuto, ma trova un muro di incomunicabilità. Il dialogo tra queste due donne ripropone l’antico conflitto madre-figlia e allo stesso tempo racconta le emozioni di una donna che ha generato ben quattro figli malati e che è condannata ad accudirli fino alla morte.
Il racconto, come è logico, termina con il suicidio della donna tormentata dal ricordo-fantasma del marito.

domenica 24 febbraio 2013

Libertà nella non libertà

In Slovacchia nella notte tra 13 e 14 aprile 1950, la polizia politica e la milizia comunista fecero irruzione in 56 tra conventi, monasteri e istituti religiosi. L’azione K (da klaster, convento) proponeva la chiusura di tutti i conventi maschili e l’internamento dei religiosi. L’azione venne dapprima diretta contro sei ordini religiosi: gesuiti, salesiani, francescani, redentoristi, consolatori del Gethsemani e basiliari.
I religiosi erano accusati di attività antistatale. Vennero condotti in conventi già confiscati dal Regime e suddivisi in tre gruppi. I religiosi dai quali si era certi di ottenere un atteggiamento di favore verso il sistema furono smistati in varie parrocchie.
I militari occuparono anche gli uffici postali presenti elle vicinanze degli istituti per evitare che venissero fatti invii di lettere con richieste di aiuto. I conventi vennero saccheggiati e messi a disposizione del popolo. La liquidazione degli ordini ebbe un grande risvolto economico per il paese; quelli maschili possedevano 429 edifici e quelli femminili 670. Le autorità sequestrarono decine di milioni di corone depositati in libretti di risparmio.
I conventi che ospitavano i religiosi più reazionari erano dei veri e propri lager con sbarre alle finestre e filo spinato tutto intorno. Ogni giorno i religiosi venivano “rieducati” al nuovo regime. Durante i giorni feriali era loro permesso di celebrare una messa di mezz’ora, mentre la domenica alla messa canonica seguiva una rieducazione politica di tre ore.
Contemporaneamente all’azione K venne organizzata l’azione P (da pravoslavi, ortodossa) che prevedeva il “ritorno” dei cattolici di rito orientale all’ortodossia, come era già stato fatto in Russia nel 1946 quando la Chiesa greco-cattolica era stata dichiarata fuorilegge perché contraria all’ortodossia.
Anche gli istituti religiosi femminili subirono lo stesso trattamento di quelli maschili.
Il 14 luglio 1950 vennero ad essere definite le uniche due istituzioni aventi diritto di insegnamento teologico nel paese: la facoltà cirillometodiana di Praga e quella di Bratislava. Venne introdotto l’insegnamento di marxismo-leninismo. Gli studenti che si rifiutavano di sottostare alle nuove disposizioni ricevevano la cartolina di chiamata alle armi entro le 24 ore.
Il 27 novembre 1950 iniziò il processo-farsa contro alcuni religiosi accusati di tradimento e spionaggio. Tra questi: Stanislav Zela, vescovo ausiliario e vicario dell’arcidiocesi di Olomouc, condannato a 25 anni di carcere; Jan Anastaz Opasek, abate del convento benedettino di Brevnov, condannato all’ergastolo; Bohuslav S. Jarolimek, abate del convento di Stahov, condannato a 20 anni ma morto in carcere per maltrattamenti. 
In questo periodo storico si svolge il racconto autobiografico “Libertà nella non libertà” di Antonie Hofmanova (Ali&no editrice),terziaria francescana vissuta in un piccolo villaggio alle falde dei monti Sudeti che separano la Repubblica Ceca dalla Polonia e dalla Germania.
Antonie era entrata in contatto con i circoli giovanili cattolici diventando catechista. Nel 1950, con la repressione attuata dal Regime venne arrestata e condannata a sei anni di carcere.
Ammalatasi di tubercolosi venne rilasciata dopo tre anni con il divieto di insegnare catechismo.
Il ritorno alla vita normale fu molto difficile; nonostante fosse infermiera trovò molte porte sbarrate per il suo passato di “rivoluzionaria” contro lo Stato riuscendo a trovare lavoro solo come sguattera presso lo stesso ospedale per il quale aveva lavorato.
Benchè la situazione non fosse tra le più rosee, Antonie non perse mai la fiducia e la sua fede in Dio. La sua casa era sempre aperta anche quando lei era lontana. Lasciava la chiave sotto lo zerbino o sotto un vaso, un letto pronto, il frigorifero pieno di cibo e la teiera con il tè a disposizione di coloro che si trovavano a passare di lì e avessero bisogno.
Tonicka (diminutivo con il quale era chiamata) aveva un sogno: una dimora che accogliesse i senza tetto. Andata in pensione riuscì a comprare una vecchia casa che ristrutturò con l’aiuto di amici e che mise a disposizione dei giovani perché avessero un luogo dove incontrarsi
Penso sempre ai giovani perché so da quali pericoli sono minacciati. Chi può mantenersi nella fede, può vincere qualsiasi battaglia.
Quando scoprì di essere ammalata di cancro, preparò l’annuncio di morte per 100 persone, al quale bisognava solo aggiungere la data finale.
Durante gli ultimi giorni molte persone si avvicendarono al suo capezzale facendo turni di due ore. Morì il 14 giugno 2009. 
Il racconto autobiografico è fatto attraverso gli occhi di Jana, pseudonimo con il quale Antonie ha deciso di chiamarsi, forse per meglio raccontare i disagi e le privazioni provate. L’insegnamento che se ne ricava è contenuto in una frase, il suo testamento morale: «Apprezzate sempre ogni cosa, perché anche ciò che è ovvio può non esserci».

venerdì 22 febbraio 2013

Quando fare outing è socialmente utile

Recensire il libro di Gianluca Nicoletti non è facile. La sua scrittura ti cattura sempre, sia che parli di nuove frontiere del comunicare che di come preparare un margarita a regola d’arte. E questa sua capacità affabulatoria occhieggia nel libro rendendo l’argomento autismo di più facile comprensione, rispetto al mare magnum di romanzi autobiografici che trasudano nozioni mediche e ringraziamenti a questo o quello specialista: scritture pesantissime, il più delle volte con connotati favolistici che sanno tanto di falsità.
Tommy è scientifico nel suo fracassare le palle. Evviva Dio che qualcuno ha avuto il coraggio di scriverlo lasciandolo a futura memoria! E questo non lo rende un genitore cattivo, anzi…Vivere con un figlio/a autistico è come scalare l’Everest. E’ vero che quando hai la possibilità di fermarti lungo questa ascesa infinita, puoi ammirare uno splendido panorama e sentirti superiore a tutti gli altri, ma ci sono giorni nei quali si vive sempre in debito di ossigeno, dalla mattina alla sera e si vorrebbe tanto farsi una passeggiata in pianura.
Non conosci più una vacanza, andare al teatro o al cinema o in palestra. Si vive alla giornata, ritagliandosi degli spazi la notte quando sarebbe più giusto dormire.
La vita di coppia diventa altro, quando non viene travolta e spazzata via, aggiungendo ulteriore sofferenza al bagaglio emotivo già colmo. Così una mattina ti svegli e, guardandoti allo specchio, ti accorgi di essere più vecchio
Non è il naturale degenerare del proprio aspetto, quello ineluttabile che ognuno di noi combatte come può, argina, supporta e di cui può anche farsi una ragione. Non è questo: è uno stato d’ animo, un rovello interiore che sale in superficie a segnalare il nostro irrimediabile disfacimento, come la macchia verde putrefattiva che appare nella fossa iliaca destra dopo 18 ore che siamo morti.
L’autismo è anche un problema sociale inteso come totale disinteresse della maggioranza della popolazione nei riguardi di quello che accade al di là del proprio spazio vitale, salvo poi essere pronti alla critica, ad affermare con orgoglio l’appartenenza alla comunità civile, quando qualcosa altera uno schema prestabilito, quando i comportamenti non sono secondo prassi. Lo racconta molto bene Gianluca le volte in cui Tommy stacca dal muro ogni manifesto o pezzo di carta incollato per ridurlo in piccoli pezzi, causando l’indispettirsi del cretino di turno. Ogni genitore ha nel proprio bagaglio esperienziale incontri ravvicinati con questi individui e più di una volta ha avuto l’impulso di assestare un bel calcio al sedere. Purtroppo non l’ha mai fatto.
L’autismo, in quanto malattia mentale, fa paura, forse anche più della peste, perché non esiste nessuna pillola che lo possa curare, perché è rottura di ogni schema prestabilito per crearne uno nuovo, molto più facile.
Chi vive con un soggetto autistico impara la semplicità e forse alla fine della nostra vita dovremmo ringraziare questi nostri figli che ci hanno liberati da sovrastrutture mentali totalmente inutili.
Grazie, Gianluca per aver avuto il coraggio di scrivere questo libro. La tua storia e anche la nostra, solo che noi non saremmo stati in grado di farlo con la stessa ironia. Saremmo caduti nella trappola dell’autocommiserazione o, peggio, dell’autocelebrazione a “genitore del secolo”, non apportando alcun contributo ad una nuova cultura della disabilità.