Ieri, mentre aspettavo che la pasta bollisse, ho cominciato a leggere, e poi finito dopo pranzo, “Cuore debole” di Dostoevskij.
Rispetto ad altri suoi racconti, questo ha una struttura che si presta benissimo alla messa in scena teatrale (una ricerca veloce in internet me lo ha poi confermato).
Può la felicità essere causa di tormento dell’animo fino ad arrivare alla pazzia? E’ possibile soprattutto quando si è convinti di non meritarlo, di non essere all’altezza di una tale fortuna. Non posso non fare una piccola divagazione personale pensando a mia figlia Benedetta che, nonostante la malattia rara di cui è affetta, nonostante la disabilità visibile per centinaia di angiofibromi sparsi sul volto, ha una considerazione di sé che nessuna insinuazione od occhiata curiosa della gente è in grado di scalfire. Incarna al femminile la celebre frase del Marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un cazzo!”
Ma torniamo al racconto.
Vasja e Arkadij Ivanovič sono due amici. L’autore spiega fin da subito il perché dell’uso del diminutivo per il primo rispetto al nome intero, altisonante per il secondo. Indubbiamente esiste una differenza di ceto ma non è solo questo perché, vuoi per le espressioni gergali, vuoi per alcuni dettagli, si riesce anche solo con pochi indizi ad avere ben chiara nella mente la loro fisionomia. Si viene subito catapultati nella scena, nella casa dei due giovani e poi fuori per strada, insieme a Arkadij, alla ricerca di Vasja
L’amicizia tra loro è qualcosa di più; lo si evince dall’esclamazione più volte ricorrente in Vasja “Colombello mio!” e in altre frasi che si scambiano.
Che sia questa bisessualità uno dei motivi che spingono Vasja nel vortice della nevrosi? Io non lo escluderei.
Il giorno di Capodanno Vasja comunica all’amico di essersi innamorato e di volersi sposare. La notizia trova Arkadij impreparato, si percepisce la sorpresa e forse il disappunto ma la rassicurazione, quasi la richiesta implorante di Vasja di vivere tutti e tre sotto lo stesso tetto, lo rincuora.
Già qualcosa turba l’animo di Vasja; non lo si capisce immediatamente perché è un fiume in piena di parole ed emozioni. Dopo un po’ si scopre che la gratifica sul lavoro è il motivo principale della sua discesa nella follia. Il compenso straordinario avuto dal padrone viene vissuto come generosità nei suoi riguardi, non come ricompensa per meriti innegabili.
Il finale è immaginabile non certo nella malinconia di Arkadij che rimane solo, orfano del povero Vasja. Le ultime frasi sono dedicate alla fidanzata, che ha poca parte nella storia se non come innesco alla follia ed è con lei che si chiude il racconto
Dostoevskij rimane campione indiscusso nel tratteggiare l’animo umano, i suoi tormenti, le fini perversioni. Dopo essere stati trascinati nel delirio nevrotico di Vasja e aver vissuto la solerte – forse eccessiva – sollecitudine di Arkadij, rimaniamo abbandonati ad una tristezza crepuscolare.
(Nonostante Dostoevskij, la pasta era al dente!)
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