Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

venerdì 22 gennaio 2016

La ragazza di nome Giulio

“La ragazza di nome Giulio” è un romanzo del 1964, io avevo cinque anni ma ricordo come se fosse ora quando mia madre lo comprò per leggerlo, incuriosita dal clamore che aveva suscitato. Ricordo anche che venne messo sui ripiani più alti della libreria, nascosto da altri volumi.
Era un libro che aveva fatto tanto discutere in famiglia. L’aveva letto anche mio padre bollandolo come pornografico. La fantasia di una bambina non poteva che esserne colpita. Quel libro, messo in alto insieme alle riviste Cosmopolitan dei primi anni 70 - che affrontavano argomenti considerati sconvenienti – e al disco “Je t’aime moi non plus”, mi aveva sempre stuzzicato ma poi i giochi con le amiche erano stati un richiamo maggiore. Non era ancora arrivato il tempo dei pruriti, delle domande rimaste sempre senza risposta.
Qualche giorno fa il libro mi è tornato tra le mani, un po’ impolverato, con le pagine ingiallite, la copertina dura delle edizioni di un certo pregio, il modico prezzo di 1600 lire. Confesso di averne intrapreso la lettura con un pizzico di eccitazione trasgredendo, a distanza di più di 50 anni, il divieto di mio padre.
È un romanzo di formazione sentimentale di una adolescente già segnata da un nome maschile – Jules – che tutto sommato non sarebbe poi così male, se non fosse per l’ovvia traduzione a volerne forzare la mano, condizionando un’esistenza controcorrente.
Le domande, la curiosità, i dubbi che l’assalgono riguardo l’amore e l’eros sono perfettamente in linea con l’età biologica, certo non con l’epoca storica, tant’è che la scrittrice venne condannata a sei mesi di reclusione per offesa al comune senso del pudore, il libro censurato e sequestrato. Nella sentenza il giudice dichiarò pienamente fondata l’accusa, proclamando il libro osceno in senso tecnico-giuridico e a dichiarare assolutamente inapplicabile allo stesso la discriminante dell’opera d’arte. Riguardo la protagonista, affermò: Niente giustifica il farneticare sconnesso o l’automatismo delirante di questo manichino che alla cattiveria inconscia dell’infante, accoppia l’egocentrismo pericoloso del rimbambito, edulcorato solo da una lascivia animalesca quanto sfrenata e orripilante. Ma che libro ha letto? viene da chiedersi. E anche: non è più oscena la sua analisi in questo italiano ridondante e senza senso?
Le esperienze sentimentali narrate sono state vissute più o meno direttamente da ognuno di noi. Negarlo è antieducativo e alimenta tutto un sotterraneo di perversione. Un mondo di divieti ha partorito persone insicure, che hanno fatto della violenza fisica e psicologica il loro passaporto per essere qualcuno.
Amore ed eros possono convivere come aspetti dell’esistenza. Sono un bagaglio esperienziale importante per il raggiungimento dell’equilibrio. L’uno che nega l’altro ha sempre prodotto disastri.
Il fascino del libro risiede anche nell’ambientazione, nel racconto di una parte della popolazione priva di ogni preoccupazione economica nonostante ci si trovasse in pieno periodo bellico. La monotonia era interrotta da vacanze, trasferimenti in altra città, giornate intere spese a sciare d’inverno e a fare il bagno d’estate. La noia sembra scolorire ogni cosa.
Il finale, anch’esso criticato e giudicato fantasioso, è perfettamente coerente con il contenuto, con la personalità della protagonista.
Ancora oggi, nel ventunesimo secolo, esistono adolescenti come lei, abbandonate da genitori immaturi.
Niente cambia e la frase ai nostri tempi era diverso, che ho sentito centinaia di volte durante la mia giovinezza, non può che farmi sorridere.


venerdì 8 gennaio 2016

Il mestiere di uomo

“Il mestiere di uomo” è uno di quei libri che mi capita di leggere e per i quali una sola volta non è sufficiente. Nonostante le sottolineature e le note a margine stiano a dimostrare il contrario, sfogliarlo nuovamente apre la porta ad altre considerazioni, neanche lontanamente ipotizzate prima. È forse per questo che, inconsciamente, molti libri rimangono sul comodino per mesi, anni, non raggiungono la destinazione definitiva della libreria prima di essere stati sufficientemente masticati, digeriti e assimilati.
Alexandre Jollien è padre di famiglia, filosofo e handicappato. Nato in Svizzera nel 1975, a causa di un parziale strangolamento causatogli dal cordone ombelicale, trascorre 17 anni in un centro specializzato per disabili cerebro-motori. Ha pesanti difficoltà a camminare, leggere e parlare. La scoperta della filosofia, parlata, insegnatagli da un vecchio prete, gli cambia la vita. Con pazienza e tanto impegno si diploma in un istituto commerciale, studia poi filosofia e greco prima all’Università di Friburgo e, in seguito, a Dublino.
La mia vocazione tripartita poteva essere un problema invece ho imparato a non vedere la vita come un combattimento, ma come libertà di essere ciò che sono.
Il primo spunto di riflessione è accogliere la vita così come viene e agire come progredientes, capaci di muovere un passo dopo l’altro verso la saggezza, le cui basi poggiano proprio sull’accettazione di sé stessi. Non viene mostrata una vita fittizia, la disabilità c’è, si vede e si percepisce. Deve essere perciò bandito l’uso ipocrita delle perifrasi per paura di offendere. La realtà è obiettiva e non umilia. Per questo ci pensa la società con l’elemento di maggior spicco: il cretino di turno. Ognuno di noi ha avuto la fortuna di averlo incontrato e l’esperienza aiuta a identificarlo e evitarlo.
Il potere di ognuno risiede quindi nel riconoscimento di sé e il fallimento può essere l’occasione per ricordarsi della distinzione di Epitteto tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi
Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: il giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri.
Questo aiuta a non affondare nella disperazione.
Altro elemento di riflessione è la brutta abitudine che abbiamo di catalogare persone e situazioni. L’etichetta distrugge l’esistenza, imprigiona la straordinarietà dell’essere nella gabbia della diagnosi, senza possibilità di miglioramento.
È sempre più frequente da parte degli insegnanti, quasi una conditio sine qua non, di voler avere una diagnosi prima di avviare qualsiasi percorso educativo e di formazione dell’alunno disabile. La rete, grazie alla possibilità di accedere alle informazioni, consente di poter essere medici, di capire ogni meccanismo patologico. La fissità stessa del giudizio sminuisce la ricchezza del reale, dell’essere umano di fronte al quale dovremmo almeno stupirci, se non osiamo meravigliarci. L’esperienza quotidiana, infatti, arriva a volte a smantellare deliziosamente queste verità stabilite.
Quando una persona ammalata o disabile diventa una diagnosi, un caso clinico, il dispositivo dell’assistenza rischia di perdere l’elemento fondamentale che è la persona e la sua relazione con gli altri.
La frase di Paul Valery “Sono qui a ignorare davanti a voi” è un ottimo spunto per riflettere sull’altro e la sua sofferenza. Porsi in ascolto liberi da pregiudizi è il modo migliore per avviare una relazione, per penetrare il mistero dell’altro.
La sofferenza di cui si parla non è quella fisica, né quella psicologica che, in qualche modo, è possibile superare ma è una sofferenza di fondo che appartiene alla natura umana. Il mestiere di uomo non riesce ad evitare questo tipo di sofferenza ma la sua personalità sta nel virtuosismo messo in atto per superarla.
L’ineluttabilità del tragico che attraversa la nostra esistenza deve essere il fulcro dal quale operare il ribaltamento. Il dolore insegna, consente la conoscenza di noi stessi, ci delimita e allo stesso tempo aiuta a spingerci oltre il limite.
Jollien parla di algodicea, atteggiamento che consiste nell’affrontare la prove della propria esistenza senza permettere che queste ci annientino trasformandole in occasioni di crescita. Come praticare l’algodicea? Ognuno di noi ha il suo personale metodo che porta a un unico risultato, più o meno consapevole: riuscire a cogliere e costruire elementi di bellezza dai quali scaturisce la gioia.
Mentre la felicità è simile alla ricerca di un ideale mai raggiunto, la gioia corrisponde a un'adesione semplice e sobria alla realtà. Al contrario della felicità, che sembra escludere alti e bassi, ricadute e mancanze, la gioia coabita con le ferite e gli incidenti di percorso. Questo porta a un nuovo rapporto con l'esistenza: la leggerezza. Non bisogna confonderla con l’ottimismo dello stupido. La leggerezza rende spesso fiorenti delle solitudini o delle sofferenze superate che vengono private di ogni artificio trasformandole in gioia che intuisce la precarietà di ogni cosa.
Per chi si incammina sulla via per diventare uomo, incappa sul concetto di corpo. Platone afferma essere la tomba dell’anima e l’esistenza di chi non parla, non cammina ma semplicemente giace come un vegetale sembra dargli ragione.
La visione di un corpo ferito, martoriato, inerme non può non confermare la relazione tra uomo e proprio corpo ma allo stesso tempo, per fortuna, se ne distacca.
Se da un lato la personalità affonda la sue radici nell’esperienza di un corpo, dall’altro la volontà ne fa la differenza, il pensiero corre libero, si allontana dal corpo raggiungendo traguardi impensabili.
Ultimo elemento di riflessione: l’alterità. Senza l’altro non siamo nulla, la sua sola presenza scandisce l’esistenza.
Il concetto di alterità non significa diversità, termine che indica un paragone a tutto svantaggio, tendente a sminuire. L’Altro è un valore aggiunto, un elemento che arricchisce, che accompagna l’identità.
In questo senso la persona disabile deve essere considerata un dono per la società che si educa alla varietà, all’incontro con l’alterità.
Essere uomo non è semplice né tantomeno compiuto. È un percorso che non si esaurisce mai, che ha bisogno di conferme, verifiche e nel quale la debolezza è il fulcro dal quale prendere nuovo slancio con leggerezza.
Il mestiere di uomo interessa tutti, ci chiama a raccolta in battaglie continue fregandocene di chi vincerà poi la guerra.