Come ho fatto a farmi sfuggire questo libro? È stata la prima cosa che mi
sono detta, e dire che ne ho letti di libri che trattano la disabilità!
“Il posto di Giacomo” è un libro che ognuno dovrebbe
leggere, compreso noi genitori che viviamo la disabilità dei nostri figli con
sudore e lacrime perché, strano a dirsi, anche noi soggiaciamo spesso, inconsapevolmente,
ad una serie di luoghi comuni.
Il primo di tutti è l’incomunicabilità dell’autismo e il
fatto che per alcuni sia assente il linguaggio, non significa che non pensino
o, peggio, non provino emozioni.
Le manifestazioni di abnorme irritabilità, di ipercinesia,
le stesse stereotipie sono conseguenza di disturbi dei quali noi non riusciamo
a comprenderne la portata.
Il secondo luogo comune è che queste persone, messe nella
condizione di potersi esprimere, non possano avere un mondo talmente ricco,
bello e profondo da rimanerne ammaliati. Ho cominciato a leggere il libro con
il preconcetto che, essendo stato scritto con la tecnica della scrittura facilitata,
non fosse tutto frutto della mente e della creatività di Giacomo. Un grande
peccato di presunzione di cui mi scuso con lo scrittore. Per noi che pensiamo
di trovarci dalla parte giusta della barricata è facile cadere nel tranello di
sapere tutto di tutti.
Bastano infatti poche righe per capire che quello che
viene raccontato è vero, è proprio la storia di Giacomo, narrata in prima
persona e non potrebbe essere diversamente perché ciò che viene descritto non è
mai stato sperimentato da nessuno di noi scarsamente
generici, neanche da quelli dotati di una straordinaria fantasia.
Leggere i suoi pensieri, le descrizioni così
particolareggiate dello stato emotivo, apre la mente alla comprensione dell’altro.
Si pensa che un genitore capisca fino in fondo il proprio figlio, anche e
soprattutto quello con autismo. Non è sempre così e il motivo è il peccato di
presunzione di cui sopra. Quanti genitori affermano «No, mio figlio non è capace di fare questo!» oppure «No, non parla!» e così dicendo insinuano
la paura malcelata che sia anche ritardato, come se la mancanza di parola sia
un ulteriore minus che si va a
sommare a tutti gli altri.
Giacomo ha avuto una famiglia che lo ha sostenuto e,
quando la sfiducia e la stanchezza ha pervaso alcuni di loro, la madre ha
combattuto la battaglia fino in fondo.
Trovare il sistema comunicativo comune è la chiave che
cambia la vita. Di tutti.
Giacomo ci sa fare con le parole, scegliendole con cura.
Che questa capacità sia attribuibile al fatto che scriva meno velocemente di
quanto pensi e che rimangano lì, nella sua mente, è poco importante. È uno scrittore e un poeta di
grande talento e come tutte le persone straordinarie in un determinato campo
dell’Arte, ha degli artifici e delle tecniche che non sono e non devono essere
argomento di una valutazione critica. Nessuno di noi sa cosa avveniva nella
mente di Dostoevskji o di Tolstoj, che percorso facevano le parole prima di
essere fissate per sempre. Ci piacciono, il loro talento è universalmente
riconosciuto e siamo contenti che la Vita ci abbia dato l’opportunità di
conoscerli.
Lo stesso vale con Giacomo. Sono felice di avere avuto
tra le mani questo libro, di averlo letto e di avere capito tante cose. Anche
di mia figlia.
Un pensiero al giorno
La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)
domenica 30 marzo 2014
giovedì 20 marzo 2014
Il tempo di imparare è infinito
Avevo letto in rete i pareri dei lettori sull’ultimo
libro di Valeria Parrella: una platea divisa a metà tra chi l’apprezzava senza
riserve e chi si sentiva deluso rimpiangendo lo stile de “Lo spazio bianco”.
La curiosità mi ha spinto ad andare a comprarlo subito, chiedendomi come mi era potuto sfuggire visto l’argomento. Già dai tempi de “Lo spazio bianco”, amato visceralmente, avevo avvertito che lo stile della scrittrice affondasse le radici in altro. Non si trattava solo di dimestichezza con la parola scritta, ci doveva essere necessariamente un vissuto intenso, quelle forti emozioni che ti rimbalzano di notte, nei momenti (pochi!) di tranquillità e che portano a scavare a mani nude finché le dita non sanguinano.
Ed ecco la conferma del sospetto, questo bellissimo libro che ho sottolineato, riempito di note e rimandi personali, di punti esclamativi.
Non è il solito memoir sulla disabilità ma un racconto in cui si intrecciano squarci narrativi intrisi di elementi metaforici ed allegorici a sequenze reali, asciutte in cui il dolore esplode
Mi chiudo nel mio studio, ti lascio solo, spengo la luce e penso che in un minuto può finire tutto questo. Un minuto, abito al sesto piano, il parapetto è già studiato da anni. Basta un salto, non mi salvo, il palazzo è antico, ogni piano più di cinque metri. Non posso dire di non averci pensato anch’io tante volte.
Per certi versi lo stile di Valeria Parrella ricorda quello di un’altra scrittrice, Francoise Lefevre, anch’essa alle prese con l’autismo del figlio. Le due donne condividono un’intelligenza vivace, una sensibilità fuori dal comune e questa maledetta lettera H che si fa largo a spintoni nel loro alfabeto, le porta a usare il lirismo anche nelle situazioni più drammatiche
Sotto come me ci sono tanti altri sommozzatori rispettosi, ognuno alla ricerca della sua stella marina, ciascuno il suo forziere: c’è un padre, sempre, alla sala d’attesa del centro di riabilitazione, alle 9 di mattina con un computer portatile. Suo figlio urla molto oltre la porta. La logopedista pure. Il sommozzatore attacca la sua bombola alla presa, quella vicino alla finestra e si tuffa. Suo figlio urla di rabbia, ma lui è dentro lo schermo ora.
Non è un libro facile anche per chi condivide con la scrittrice il numero 104/92 tatuato sull’avambraccio. Sarebbe un libro per tutti se ci fosse comprensione, ascolto, solidarietà, condivisione empatica e se non ci fosse il solito furbo che parcheggia nel posto riservato ai disabili.
La curiosità mi ha spinto ad andare a comprarlo subito, chiedendomi come mi era potuto sfuggire visto l’argomento. Già dai tempi de “Lo spazio bianco”, amato visceralmente, avevo avvertito che lo stile della scrittrice affondasse le radici in altro. Non si trattava solo di dimestichezza con la parola scritta, ci doveva essere necessariamente un vissuto intenso, quelle forti emozioni che ti rimbalzano di notte, nei momenti (pochi!) di tranquillità e che portano a scavare a mani nude finché le dita non sanguinano.
Ed ecco la conferma del sospetto, questo bellissimo libro che ho sottolineato, riempito di note e rimandi personali, di punti esclamativi.
Non è il solito memoir sulla disabilità ma un racconto in cui si intrecciano squarci narrativi intrisi di elementi metaforici ed allegorici a sequenze reali, asciutte in cui il dolore esplode
Mi chiudo nel mio studio, ti lascio solo, spengo la luce e penso che in un minuto può finire tutto questo. Un minuto, abito al sesto piano, il parapetto è già studiato da anni. Basta un salto, non mi salvo, il palazzo è antico, ogni piano più di cinque metri. Non posso dire di non averci pensato anch’io tante volte.
Per certi versi lo stile di Valeria Parrella ricorda quello di un’altra scrittrice, Francoise Lefevre, anch’essa alle prese con l’autismo del figlio. Le due donne condividono un’intelligenza vivace, una sensibilità fuori dal comune e questa maledetta lettera H che si fa largo a spintoni nel loro alfabeto, le porta a usare il lirismo anche nelle situazioni più drammatiche
Sotto come me ci sono tanti altri sommozzatori rispettosi, ognuno alla ricerca della sua stella marina, ciascuno il suo forziere: c’è un padre, sempre, alla sala d’attesa del centro di riabilitazione, alle 9 di mattina con un computer portatile. Suo figlio urla molto oltre la porta. La logopedista pure. Il sommozzatore attacca la sua bombola alla presa, quella vicino alla finestra e si tuffa. Suo figlio urla di rabbia, ma lui è dentro lo schermo ora.
Non è un libro facile anche per chi condivide con la scrittrice il numero 104/92 tatuato sull’avambraccio. Sarebbe un libro per tutti se ci fosse comprensione, ascolto, solidarietà, condivisione empatica e se non ci fosse il solito furbo che parcheggia nel posto riservato ai disabili.
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