Ogni volta che leggo un libro che racconti la realtà in
un campo di concentramento, ho le medesime emozioni, come se tutto quello letto
in precedenza non avesse più valore, fosse una sciocchezza rispetto alle nuove
atrocità che vengono descritte.
Mi chiedo sempre, senza avere mai una risposta
plausibile, come sia possibile arrivare a tale crudeltà e come sia assurdo che
nessuno abbia mai denunciato quegli orrori, se non i prigionieri stessi una
volta scappati o liberati dall’inferno.Questo libro è l’ennesimo che aggiunge nuove mostruosità ad un’idea che mi sono fatta di quel periodo infame.
L’autore venne arrestato dai sovietici mentre cercava di raggiungere la Francia e accusato di essere una spia al soldo dei tedeschi. Fu internato per due anni in un gulag a Kargopol, città situata all’estremo nord della Russia europea, dove le temperature sono proibitive per gran parte dell’anno.
Il libro racconta la vita all’interno del campo di lavoro e ogni capitolo, oltre a far conoscere gli altri prigionieri, raccontandone il passato e l’atroce presente, descrive alcuni posti chiave all’interno del gulag. Tra questi la casa degli incontri, un’ala del corpo di guardia dove era concesso ai prigionieri di trascorrere uno o due giorni con i loro parenti. La sua dislocazione era simbolica perché al confine tra la libertà e la schiavitù. Non era facile riuscire ad ottenere il permesso di avere la visita dei propri cari e, quando succedeva, i prigionieri erano obbligati a tacere le condizioni di vita disumane nelle quali erano costretti a vivere.
La casa degli incontri era arredata con un tavolo, alcune sedie, le tende alle finestre e due letti separati. Per alcuni il permesso aveva un’ulteriore tremenda clausola: l’incontro poteva avvenire solo di giorno, la notte il prigioniero ritornava nella sua baracca tra i miasmi fetidi di bocche cariate e piaghe suppurate.
L’ospedale era un altro luogo molto ambito, perché significava aver più da mangiare, un letto e la possibilità di riposarsi. C’era chi si auto mutilava, ma non sempre la cosa funzionava e, se l’incidente non era sostenuto da prove convincenti, il prigioniero rischiava altri 10 anni di internamento al campo. Quando venne proibita l’automutilazione, si trovarono altri sistemi. Un metodo diffuso era iniettarsi del sapone liquefatto: le secrezioni che ne derivavano assomigliavano a quelle delle malattie veneree. Lo stesso autore racconta di essersi esposto nudo e sudato alla temperatura di -35° per prendere la polmonite. Non manca il racconto di stupri, di ricatti, di violenze perpetrate sulle minoranze. Nulla conforta il cuore che soffre quanto la vista della sofferenza altrui.
La morte veniva invocata e cercata in vario modo, anche come ultimo atto di autodeterminazione.
Nelle quasi 300 pagine si viene risucchiati in un clima oscuro e tutta la lettura non conosce un attimo di colore e di luce. Un bel libro pieno di spunti di riflessione, da tenere sul comodino per aprirlo ogni volta se ne senta la necessità. Per non dimenticare, per comprendere, per perdonare.
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