Susan Hill è una scrittrice britannica di successo, poco nota al grande pubblico italiano.
Il romanzo “Nessuna pietà per i puri di cuore” è il seguito di “Omicidi sulla collina” pubblicato sempre da Kowalski.
Il protagonista è Simon Serrailler, ispettore capo di una cittadina tranquilla nel sud dell’Inghilterra. E’ un uomo enigmatico, tormentato dal ricordo di una giovane poliziotta con la quale sembra aver intrecciato una relazione breve ed intensa. Sembra è la parola giusta perché verso la fine del romanzo si arriva alla conclusione che la donna fosse una delle tante con le quali Simon ha preferito allacciare storie senza importanza per non impegnarsi seriamente.
L’intreccio poliziesco principale, la scomparsa di un bambino, procede con una storia parallela che coinvolge la famiglia dell’ispettore.
La sorella Martha è disabile dalla nascita. Ricoverata in un istituto, si ammala gravemente e per questo Simon ritorna dalle sue vacanze in Italia. E’ molto legato a lei e non ha mai accettato la scelta dei suoi genitori di chiuderla in un centro di lungo degenti.
Nessuno era mai riuscito a comunicare davvero con lei. La sua coscienza di sé e la sua comprensione del mondo erano inferiori a quelli di un animaletto domestico. Eppure…c’era stato un barlume di vita dentro di lei al quale Simon si era aggrappato fin dal principio.
Martha si riprende da una delle tanti crisi respiratorie per poi morire improvvisamente, senza un reale motivo.
Per chi è gravemente disabile da sempre, la morte sembra una salvezza, la conclusione giusta di un’esistenza senza prospettive, una specie di lieto fine per il malato e per la famiglia. Da buon poliziotto Simon non trova una spiegazione plausibile alla morte della sorella e vorrebbe capire di più; si scontra però con un muro di rassegnazione e accettazione del destino da parte degli altri familiari, soprattutto della madre la cui vita è stata totalmente sconvolta dalla nascita di Martha. Non ho pianto. Per lei ho già versato tutte le mie lacrime molti anni fa – dirà al figlio.
Il romanzo procede con l’indagine principale ma anche in chi legge qualcosa non torna nella morte della donna. La scrittrice ha avuto il coraggio di inserire nel racconto non solo il problema della disabilità, ma anche la sua tragica conclusione. C’è chi inorridirà pensando ad un atto così estremo e contro natura, ma la cronaca ha spesso portato alla luce la solitudine di chi vive accanto alla disabilità ogni giorno, rinunciando ad avere una vita propria.
Situazioni così estreme non dovrebbero mai capitare in una società che si definisce sociale e che invece preferisce manifestare la propria compassione verso persone che vivono all’altro capo della Terra, piuttosto che verso appartenenti alla propria ristretta cerchia di amicizie. Si ha paura di essere risucchiati in un vortice del quale si conosce bene il dolore e la disperazione. Meglio inviare dei soldi e chiudere la porta.
Il romanzo fornisce spunti di riflessioni. La rupe Tarpea è ancora presente nella nostra società ed è l’ultima ratio quando si è persa la speranza.
Lo Stato deve farsi carico delle persone che vivono situazioni di grande disagio ma ognuno di noi ha il dovere di guardarsi attorno e offrire un aiuto a chi è in difficoltà emotiva. Tante volte non è necessario un grosso impegno, ma solo la comprensione empatica, l’abbraccio a sostenere, la spalla sulla quale piangere. Basta molto poco per riaccendere la voglia di vivere, anche meno dell’euro solidale
Nessun commento:
Posta un commento