Il racconto è infarcito di deiezioni: saliva, urine,
feci, vomito. Sono descritte croste, profonde screpolature, bocche sporche e
piene di cibo ruminato per ore. L’autore ci porta dentro una storia vera, priva
di filtri perché, come operatore sociale, non ha gli strumenti per classificare
la malattia mentale e perciò la descrive per quello che vede. Non c’è alcun
giudizio, solo lo sguardo acritico che mostra comportamenti in risposta a
situazioni o sentimenti. Alla luce di questo si può pensare che la follia,
tutto sommato, non esiste se con questo termine intendiamo una risposta
incongrua a vari stimoli. C’è invece sempre un motivo.
Gli abitanti della casetta sono quasi tutti in
sovrappeso, se non obesi. Il cibo rappresenta una pulsione primaria che va a
soddisfare tutte le altre pulsioni, è l’elemento tranquillizzante nello
scorrere del tempo, è esso stesso il tempo percepito.
Non hanno cura di sé e parte della giornata di un
operatore è impiegata a lavarli, fare la barba, vestirli.
La bocca è devastata, quasi tutti senza denti per paradentosi
da mancata igiene alla quale si aggiungono gli effetti dei farmaci neurolettici
e anti-epilettici. C’è chi ha avuto l’estrazione di parte della dentatura per
evitare che mordesse se stesso e gli altri.Questa descrizione con quella dei segni visibili sulla testa di uno di loro, retaggio di intervento chirurgico facente parte degli orrori della vecchia psichiatria, colpiscono come un pugno allo stomaco.
La vita nella casetta scorre monotona perché l’obiettivo di chi lavora in queste strutture è farli vivere meglio possibile in attesa della morte. L’abitudine a convivere con la malattia mentale, con le sue apparenti incongruenze, porta a trovare una soluzione di comodo per sopravvivere, per arrivare a fine turno.
L’anno di Eugenio, ma anche di tanti altri prima e dopo di lui, è la ventata di novità, la voglia di cambiare, il coraggio di provare nuovi modi di comunicare, la certezza che niente è mai perduto e ci sia sempre un margine di miglioramento.
Merito dell’autore è anche il coraggio di raccontare sic et simpliciter l’atteggiamento di alcuni medici ospedalieri coinvolti in urgenze di vario tipo. C’è il minimo della professionalità, sufficienti a non essere denunciati per omissione di cura, a fronte dell’assoluta convinzione che la loro vita non sia degna di essere vissuta. Tanto è chiaro che non guarisce!
Il libro è una testimonianza intensa di una realtà che spesso facciamo finta di non vedere restituendo dignità a Laslo, Andò, Esa, Flì, Gä, i cinque abitanti della casetta.
Siamo responsabili
di ciò che non abbiamo cercato di impedire (J. P. Sartre)
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