Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

giovedì 3 dicembre 2015

La quinta felicità

“La quinta felicità” è un libro del 2009 edito da Stampa Alternativa che ha da sempre il pregio di pubblicare lavori molto interessanti. Questo libro di Eugenio Azzola è il racconto del suo anno di servizio civile in una struttura che accoglie cinque adulti – almeno anagraficamente - con disturbi mentali. Sono passati attraverso istituti, ospedali, manicomi, non hanno conosciuto nient’altro di diverso. Il loro sviluppo mentale è rimasto fermo al palo perché nessuno ha speso il proprio tempo per aiutarli a crescere. Vite che la società allontana e segrega in posti che vengono definiti protetti ma altro non sono che i vecchi istituti travestiti da altro.
Il racconto è infarcito di deiezioni: saliva, urine, feci, vomito. Sono descritte croste, profonde screpolature, bocche sporche e piene di cibo ruminato per ore. L’autore ci porta dentro una storia vera, priva di filtri perché, come operatore sociale, non ha gli strumenti per classificare la malattia mentale e perciò la descrive per quello che vede. Non c’è alcun giudizio, solo lo sguardo acritico che mostra comportamenti in risposta a situazioni o sentimenti. Alla luce di questo si può pensare che la follia, tutto sommato, non esiste se con questo termine intendiamo una risposta incongrua a vari stimoli. C’è invece sempre un motivo.
Gli abitanti della casetta sono quasi tutti in sovrappeso, se non obesi. Il cibo rappresenta una pulsione primaria che va a soddisfare tutte le altre pulsioni, è l’elemento tranquillizzante nello scorrere del tempo, è esso stesso il tempo percepito.
Non hanno cura di sé e parte della giornata di un operatore è impiegata a lavarli, fare la barba, vestirli.
La bocca è devastata, quasi tutti senza denti per paradentosi da mancata igiene alla quale si aggiungono gli effetti dei farmaci neurolettici e anti-epilettici. C’è chi ha avuto l’estrazione di parte della dentatura per evitare che mordesse se stesso e gli altri.
Questa descrizione con quella dei segni visibili sulla testa di uno di loro, retaggio di intervento chirurgico facente parte degli orrori della vecchia psichiatria, colpiscono come un pugno allo stomaco.
La vita nella casetta scorre monotona perché l’obiettivo di chi lavora in queste strutture è farli vivere meglio possibile in attesa della morte. L’abitudine a convivere con la malattia mentale, con le sue apparenti incongruenze, porta a trovare una soluzione di comodo per sopravvivere, per arrivare a fine turno.
L’anno di Eugenio, ma anche di tanti altri prima e dopo di lui, è la ventata di novità, la voglia di cambiare, il coraggio di provare nuovi modi di comunicare, la certezza che niente è mai perduto e ci sia sempre un margine di miglioramento.
Merito dell’autore è anche il coraggio di raccontare sic et simpliciter l’atteggiamento di alcuni medici ospedalieri coinvolti in urgenze di vario tipo. C’è il minimo della professionalità, sufficienti a non essere denunciati per omissione di cura, a fronte dell’assoluta convinzione che la loro vita non sia degna di essere vissuta. Tanto è chiaro che non guarisce!
Il libro è una testimonianza intensa di una realtà che spesso facciamo finta di non vedere restituendo dignità a Laslo, Andò, Esa, Flì, Gä, i cinque abitanti della casetta.

Siamo responsabili di ciò che non abbiamo cercato di impedire (J. P. Sartre)
 

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