Il libro “Dove porta la neve” è una bella storia che si
dipana, tra passato e presente, alla vigilia di Natale, in uno scenario
monocolore per la tanta neve caduta. Si tratta di una bella fiaba, di quelle
che vengono raccontate nei bar o nei piccoli circoli di paese tutte le volte
che una nevicata abbondante consente di fare dei paragoni. E, come ogni fiaba,
c’è il lieto fine quando mancano poche frasi al punto conclusivo e ormai hai
perso la speranza e sei triste perché la storia di Carlo e Nicola ti ha
coinvolto più del dovuto.
D’altronde, non poteva essere diversamente perché già il
racconto della quotidianità di Carlo è un deja-vu, a tratti malinconico proprio
nella consapevolezza che ciò che viene narrato è l’anticipazione di un futuro
prossimo quando colui che, per legge, è incapace di svolgere i normali atti
della vita, si troverà ad affrontarli senza quell’impegno amorevole che solo un
genitore è in grado dare fino all’ultimo.
Carlo è un uomo affetto dalla sindrome di Down e vive da
solo. Ha delle abitudini che lo tranquillizzano, quelle che il linguaggio
medico definisce stereotipie e che spesso vengono erroneamente combattute. C’è
sempre un limite che limita il normale dal patologico ma spesso la medicina, e
conseguentemente la pedagogia, tendono a demonizzare certi atteggiamenti che,
in un particolare contesto, sono utili a superare le difficoltà. Carlo recita
una serie di preghiere, in successione definita, prima di chiudere gli occhi e di
addormentarsi e tende a ripetere due volte una frase, come ad affermare quello
appena detto.
Anche Nicola ha delle fissazioni che lo rassicurano
nell’angoscia della solitudine e della vecchiaia: le ciabatte devono essere
perfettamente appaiate, poste alla sinistra del letto per poterle trovare
facilmente e, infilandole senza impicci, cominciare bene la giornata. A brand
new day, come dice mia figlia Benedetta, anche lei con le sue sicurezze
ancorate all’allineamento di scarpe e ciabatte lungo una parete della sua camera.
Carlo mangia la stessa cosa a pranzo e subito dopo va a fare
un pisolino. Anche Nicola ha un’alimentazione monotona perché il cibo ha perso
la connotazione sociale di condivisione. Alla fine, se non fosse per la
sindrome di Down, la vita dei due protagonisti non è così diversa. Questo è
sicuramente un messaggio importante: Carlo e Nicola sono uguali nella
solitudine che induce come risposta una ritualità per farsi compagnia.
Sono sempre convinta che la scelta di leggere un libro in un
determinato momento sia frutto di un sesto senso, di una specie di premonizione
perché dentro vi ho sempre trovato spunti utili alla riflessione. In questo
caso il breve, ma intenso passaggio sull’abbraccio, ha reso più significante un
episodio che un bambino con disturbi dell’attenzione ha voluto raccontarmi. Per
la prima volta, alla sua richiesta ai compagni di classe di essere abbracciato,
dopo anni nei quali assisteva addirittura alla fuga a gambe levate, è stato
esaudito, ha finalmente avuto l’abbraccio tanto cercato e desiderato. È stato toccante sentire
questa storia e vedere lo stupore e poi la gioia di un contatto, dell’inizio di
una relazione, finalmente dell’appartenenza a un gruppo.
Il libro “Dove porta la neve”, consapevolmente o meno,
aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza delle persone con disabilità come
persone nella loro normale quotidianità. Sono testimonianze di questo tipo che
consentono alla cultura sulla disabilità di spandersi a macchia d’olio.
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