Tonio Kröger è il racconto di un diverso sentire che ho
apprezzato parola per parola trovandoci molto della mia vita.
Sono stata una ragazzina piuttosto solitaria dal racconto
di una mia compagna di classe che non vedevo da diversi anni. Mi piaceva stare
in mezzo agli altri ma spesso non trovavo argomenti comuni. Mentre tutte
avevano letto, o si apprestavano a farlo, “Piccole donne”, io ero attratta dal
teatro. Nell’epoca del a nanna dopo
Carosello, mi era consentito vedere la prosa che veniva trasmessa in presa
diretta il venerdì sera. Mi affascinava e da lì il passo fu breve: lessi tutto
Pirandello.
A dieci anni avevo già letto “Centomila gavette di
ghiaccio” che ancora oggi rimane uno dei libri più belli sulla Seconda Guerra
Mondiale. Che cosa potevo avere in comune con il resto dei miei coetanei? La
gioia di vivere, che è uno stato naturale in ogni adolescente, era in me sempre
adombrata dal senso di fugacità delle cose. Il chiedermi il significato
dell’esistenza ha accompagnato il mio vivere fino ad oggi.
Nel romanzo manniano Tonio è diverso già nel nome che
suona così poco tedesco. I suoi tratti somatici sono tipicamente meridionali,
forse un po’ rozzi, rispetto alla bellezza ariana dell’amico Hans.
Tonio nasconde un segreto che è il poetare in versi e la
cosa non stupisce perché spontaneo, connaturato in chi rimane meravigliato da
ciò che lo circonda: lo zampillo della fontana posta sotto i rami del vecchio
noce, il mar Baltico in lontananza, le diverse sfumature armoniche del violino.
Melanconica ed elegante la descrizione del padre con sempre un fiore di campo all’occhiello,
frase che ritorna più volte nella narrazione. Viene da pensare che la sua
diversità non sia solo frutto della bellezza e passionalità della madre,
proveniente da un paese tanto giù sulla
carta geografica.
Molto bello il lungo monologo con il quale Mann, per
mezzo di Tonio, spiega il suo concetto di arte. L’artista non sente, è un
qualcosa di extraumano, di non umano che si pone in una situazione lontana e
distaccata rispetto all’umanità. Solo così è in grado di rappresentare ciò che
vede, non cadendo nel patetico. Qualcosa
di pesante, di goffamente serio, di non dominato, non ironico, scipito, noioso,
banale uscirà dalle vostre mani.
L’artista è anche uno snob. Noi artisti non disprezziamo nessuno più profondamente del dilettante,
dell’uomo vivo che all’occasione crede di poter essere, per giunta, anche un
artista.
Lo stile di Mann è fatto di pennellature con l’uso mirato
e preciso degli aggettivi; di descrizioni vivide dove ogni parola ha un
determinato posto e perché.
Nella seconda parte il suo viaggio di ritorno a Lubecca
dove era nato, il ripercorrere con occhi e sentire diversi i luoghi della
fanciullezza, ripetere persino gli stessi gesti.
Vide un treno
passargli davanti sbuffando con goffa precipitazione, contò per passatempo i
vagoni; ed anche si sorprese a far
dondolare il cancello avanti e indietro sui cardini finché cigolasse.
Lasciata la città natale si dirige verso Aalsgard dove
reincontra, non visto, gli amici d’infanzia e li guarda ballare il valzer,
nascosto nella veranda. Saudade è
l’emozione che pervade questa ultima parte assieme alla consapevolezza che non
è mai possibile un destino diverso per ognuno di noi, perché ognuno ha la sua
strada e il suo posto nella storia.
Nessun commento:
Posta un commento