È vero, Mario Tobino è il mio scrittore preferito ed ogni volta l’incanto della sua narrazione aggiunge nuove emozioni e altre sottolineature a matita di passaggi da non perdere così che, riaprendo il libro a caso, saltino subito agli occhi trascinando rinnovate sensazioni.
“La bella degli specchi” è una raccolta di racconti e memorie, vincitrice del Premio Viareggio 1976. In essa sono presenti storie che fanno parte del suo personale vissuto: la guerra in Libia, la partecipazione alla Resistenza con le formazioni di Giustizia e Libertà, il dopoguerra, il suo lavoro all’interno del manicomio e le storie, tra il vero e il fantastico, della tradizione popolare, come quella di Lucida Mansi che dà il titolo al libro.
Lucida Mansi a ventidue anni rimase vedova. Aveva gli occhi nerissimi che aggiungevano qualcosa di infrenabile al perfetto ovale del viso. Anche in un racconto, l’incipit è fondamentale e di Tobino non si può non amare l’uso di vocaboli che, sebbene siano spesso considerati desueti, hanno un loro perché e un loro fascino. Infrenabile è tra questi, parola di derivazione latina, a dimostrazione della sua passione per i classici e dell’essere stato un profondo conoscitore di tutta l’opera di Dante Alighieri. La storia-leggenda di Lucida è parte di Lucca ed è presente nel sito istituzionale.
Ne “La livornese nell’arèm” Tobino racconta la storia di Alberta, giovane livornese che la sera del 4 giugno 1800 venne rapita sulla spiaggia di Antignano e portata in Turchia alla corte di un sultano. Lo spunto gli viene da un ex-voto nel Santuario della Madonna del Montenero. Nel mezzo di una parete fui richiamato da un quadro contenente un giacchettino traforato in fili d’oro, ripiegato come giacesse in un armadio, e, sotto di questo, due babbucce orientali, ugualmente intessute. La storia vuole che la giovane venisse poi salvata dal fratello ma, tornata in patria, la vita non fu più la stessa, macchiata dal sospetto della perdita della sua verginità. I ragazzi che prima del rapimento la guardavano con la speranza di essere ricambiati, giravano il viso sorridendo con sarcasmo; le donne che la cercavano per lavori di sartoria, erano più incuriosite da cosa fosse successo nell’alcova. Alberta passò così da una forma di prigionia ad un’altra, peggiore, di allontanamento ipocrita da parte della comunità.
A seguire, la storia di Birindelli, portiere dell’Università di Lucca, ucciso da due giovani del Partito di Azione per essere stato spia dei tedeschi causando la tortura e la morte di due fratelli, figli del bidello della facoltà di Lettere. E poi i cinque capitoli sulle vicende del tenente medico Agilulfo durante la guerra in Libia.
La parte più bella è quella relativa al manicomio, argomento pieno di emozioni, già presente nei suoi due romanzi precedenti “Libere donne di Magliano” (1953) e “Per le antiche scale” (1972) con il quale vinse il Premio Campiello. Prima come psichiatra e poi come scrittore, Tobino ha avuto il pregio di parlare dell’uomo e non della malattia. Non erano tra loro fratelli, la malattia non li aveva resi pietosi l’uno dell’altro. Anche tra loro gelosia, invidia, odio, come fuori, come in ogni luogo. Sono parole rivoluzionarie anche ora perché la persona con disagio psichico, così come quelli con ritardo cognitivo, con disturbi dello spettro autistico sono esseri umani con il proprio temperamento, carattere, personalità, al di là della malattia e non necessariamente per essa.
Meravigliose le ultime pagine che raccontano la svolta Basaglia. La prima operazione importante fu quella delle “riunioni”, parlare con gli ammalati, gli infermieri, un reciproco confidarsi, consigliarsi. Si trattò prima di tutto di “sensibilizzare” gli ammalati, dar loro fiducia, convincerli che non erano anime perse, che potevano essere utili, guadagnare la stima. Di continuo era sottinteso che il manicomio del passato doveva essere dimenticato. Intenso è il passaggio in cui vengono affidate le chiavi delle porte tra i reparti ad alcuni “ospiti”: è questa la nuova terminologia che va a cancellare quel “malati” stigmatizzante. L’arrivo dei nuovi farmaci antipsicotici ha permesso la domiciliarità e la possibilità di inserimento lavorativo e sociale, condizioni che se prima della pandemia erano difficili da realizzare, adesso sembrano impossibili perché le priorità di una comunità sono sempre quelle delle classi più abbienti e meno fragili. Sopraggiunse “l’Articolo Quattro”, la nuova benefica legge, per la quale certi malati non pericolosi venivano dichiarati liberi cittadini, a loro decisione l’entrata e l’uscita dall’ospedale, persone abbisognevoli di cure non di vincoli. La rivoluzione travolse le famiglie, non fu facile accettare l’idea che il loro congiunto non fosse più quell’elemento pericoloso “fuori di testa” e Tobino, con grande dolcezza, racconta dell’espediente usato dagli infermieri per permettere ad una ospite di ritornare a casa, da suo marito che l’aspettava con immutato amore e da una figlia che invece era contraria. “Siamo qui di passaggio. Ora i malati sono liberi, siamo in gita. Per caso siamo passati di qui. Come riconosceva questi posti! Ci ha indicato la casa”. Non è facile convivere con la malattia mentale che, nella fase di acuzie, non ha regole, né confini. È un inferno nel quale viene trascinato l’intero nucleo familiare, è una sanguisuga vorace che prosciuga gli animi, è una stanza senza più luce. In psichiatria non si può e non si deve considerare solo il malato, ma l’intero gruppo famiglia deve essere preso in carico, attivando percorsi di sostegno e di formazione per superare le difficoltà che sono presenti e fanno parte di ogni piccola comunità, ma che nel disagio mentale trovano espressività più intense, gravate da una fatica fisica ed emotiva che fa di ogni caregiver una sorta di sopravvissuto alla catastrofe.
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