Un pensiero al giorno

La gente di ogni parte del mondo oggi cerca la soluzione del problema umano nel progresso scientifico, nel successo politico, professionale e nell'immediata soddisfazione dei bisogni e delle passioni. Accade perciò che, mentre ciascuno invano cerca di difendersi egoisticamente dal sacrificio e dal dolore, in realtà provoca situazioni di inaudita sofferenza a se stesso e agli altri. E' un assurdità, ma costituisce la logica comune. (Anna Maria Cànopi)

giovedì 8 marzo 2012

Non mi piace

Non mi piace. E’ la frase che più mi martella nella testa. Ho pensato che non fosse giusto iniziare così la recensione del libro L’innocenza delle volpi di Torey Hayden ma, per quanto mi sforzi, non riesco a trovare una frase che più si avvicini a quello che ho provato quando sono arrivata alla fine del romanzo.
Da un po’ di anni avevo smesso di seguire tutte le sue uscite letterarie perché avevo riscontrato una certa ripetizione e un affievolirsi delle emozioni, come se lo scrivere fosse diventato un lavoro come tanti altri. E non lo è.
Anche in questo nuovo libro si parla di disagio, frutto di abbandono affettivo, di aridità di sentimenti e povertà di valori all’interno del nucleo primigenio della società: la famiglia.
La prima cosa che salta agli occhi nello stile dell’autrice, soprattutto quando è possibile fare un parallelo con i suoi precedenti lavori, è l’introduzione di situazioni, per così dire, scabrose che sembrano essere state inserite per voler essere al passo con i tempi e i nuovi modi di comunicare, più che essere realmente espressione sia della forma narrativa che del sentire emozionale della Hayden.
Non si tratta di fare del semplice moralismo ma indubbiamente qualcosa non torna, è una nota stonata perché totalmente avulsa dal resto; sono andata a rileggere tutti i libri precedenti per ritrovare situazioni e linguaggi analoghi. Non ce ne sono, almeno non in quei termini. Perché allora? Farsi leggere dalle nuove generazioni, allargare la cerchia dei fruitori non significa necessariamente conformarsi. Se così fosse capolavori come Lolita di Nabokov non avrebbero continuato ad appassionare giovani di tutto il mondo.
L’unica cosa rimasta invariata è la capacità di scrittura e il saper tenere legato il lettore fino alla fine, nonostante diverse incongruenze nella veridicità del racconto; insomma, per dirla più semplice, la trama fa acqua in più punti ed il finale lascia assolutamente indifferenti
Ho impiegato diversi giorni prima di scrivere questo mio personale commento.
Il motivo è che mi sono sentita delusa nelle aspettative, un po’ tradita nei sentimenti che i libri precedenti, soprattutto Una bambina, avevano evocato. Con l’autrice non c’è solo un rapporto di lettura, un condividere situazioni narrate; anni fa ho avuto la fortuna di incontrarla in occasione di un convegno sull’autismo. Lei era in Italia per il lancio di un suo libro e aveva accettato con entusiasmo il mio invito a intervenire. Conservo ancora un bellissimo ricordo della giornata trascorsa a parlare di tutto, nonostante le mie difficoltà a dialogare in inglese. La sua presenza aveva infiammato gli animi dei partecipanti, molti insegnanti di sostegno che cercavano risposte alle difficoltà nell’inserire bambini e ragazzi con disturbi dell’apprendimento in un normale contesto scolastico. Le scuole speciali erano da bandire o qualcosa poteva essere recuperato? Non poteva essere controproducente voler inserire a tutti i costi un alunno che aveva tempi diversi di attenzione e comprensione in un ambiente scolastico che poi, per forza di cose, lo avrebbe abbandonato? C’era qualcosa che poteva essere presa dall’esperienza americana? Ma soprattutto, esiste l’integrazione scolastica o è un’utopia?
Credo che le domande di allora siano rimaste le stesse anche oggi.
Non penso che queste mie considerazioni attraverseranno l’oceano per arrivare fino a lei, ma mi auguro che ritorni a scrivere con il piacere di condividere, di raccontarsi e non perché il contratto con l’editore lo impone a ritmi che hanno poco a che fare con la creatività e l’arte.

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