È la frase-riflessione del libro dalla quale mi sento di
partire, dopo averne letto un altro sempre sull’esperienza del carcere “Urla a
bassa voce. Dal buio del 41bis e del fine pena mai” a cura di Francesca De
Carolis.
Il carcere è un non-luogo, emblema di un paradosso,
ovvero la detenzione come rieducazione alla vita civile. Ci troviamo invece di
fronte al crollo di una società incapace di gestire i normali problemi
derivanti dalla coesistenza di tante persone e che non trova di meglio che
racchiudere il proprio fallimento tra quattro mura, buttando la chiave. Gente
persa nei gesti e nei pensieri alla quale vengono distribuite giornalmente poche
gocce di morte, a chi per poco tempo, a chi per vent’anni o per tutta la vita.
Uno stillicidio mantenuto dai colloqui con i familiari, salvo poi decidere di
accelerare il crack psichico con i trasferimenti in altri non-luoghi,
interrompendo legami faticosamente creati sia all’interno che all’esterno.Il carcere non è una scuola di vita, ma addirittura un’università dove tutte le dinamiche sono esasperate, magistrali, dove i vizi e le virtù ingigantiti, difficili da controllare, dove la differenza di classe è presente come fuori, insormontabile.
Nel carcere vige, crudele, la selezione naturale.
Tante le figure che nel romanzo danno vita a un guazzabuglio di emozioni, ad uno zoo colorato. C’è Giovannella che usa il carcere per abortire senza inutili perdite di tempo dovute alla burocrazia; Marrò, attrice tossico-dipendente, che si fa chiamare per cognome perché Teresa non le piace; Annunciazione, una specie di eunuco gigante, incapace di relazioni sociali, che entra ed esce dal carcere; la zingara che, contrariamente al normale, non importuna e non ti chiede niente perché non sta lavorando. E poi Barbara, Marcella, Roberta, Ornella e Suzie Wong, una cinese piccola, minuta che usa indossare una vestaglia orientale tutte le volte che entra in cella e si appresta a preparare il tè.
Contrariamente a quello che si pensa, il carcere è il luogo dove si parla di più d’amore e dove la voglia di tenerezza passa attraverso strade che la società considera contrarie alla norma, dimenticando che il carcere non è altro che il suo spettro.
Goliarda Sapienza aveva 55 anni quando entrò nella sezione femminile di Rebibbia per un furto di gioielli. A questa età è normale pensare di sapere già tutto del mondo, di aver vissuto a sufficienza da poter insegnare qualcosa; invece ci si ritrova a diventare studenti, a dover ricominciare tutto daccapo. Situazione che la scrittrice ha poi continuato a subire perché la sua grandezza narrativa non le fu mai riconosciuta se non post mortem.
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