Dopo tre anni un altro scrittore abruzzese ha vinto il Premio Campiello. Nel 2017 era stata la volta di Donatella Di Pietrantonio e nel lontano 1968 il grande, immenso Ignazio Silone. Tre stili diversi, tre contesti territoriali differenti: la Marsica, Pescara e il suo territorio, Lanciano.
Il romanzo “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” è proprio questo: nell’arco di più di ottant’anni il protagonista racconta se stesso all’interno della Storia, quella con la maiuscola, in un linguaggio semplice nei contenuti, in cui l’italiano si mischia al dialetto, spesso - e forse anche troppo - infarcito di modi di dire tipicamente abruzzesi. Liborio è un ingenuo, con la sfortuna di essere nato nel periodo sbagliato e nel posto sbagliato. Nel 1926 l’Abruzzo era una regione molto povera, straordinariamente bella, ma sconosciuta ai più. Il protagonista è costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare: questo è uno dei tanti “segni neri” di cui egli parla e che altri non sono che calci al sedere che, appunto, lasciano il segno. Una vita sfortunata: non conosce il padre, del quale ha ereditato gli occhi, è costretto ad emigrare al nord per lavorare, la sua testa sempre piena di pensieri ricorrenti, spesso rimpianti; i suoi comportamenti bizzarri lo rendono il bersaglio preferito dei bulli del suo paese prima e poi di quelli al lavoro; non sempre capisce il sarcasmo, il dileggio perché di fondo è un puro, ma quando prende consapevolezza della cattiveria altrui, perde la testa ed allora diventa protagonista di atti che rimangono nella memoria collettiva e che lo rendono un cocciamatte portandolo dritto al manicomio, dove rimane nove anni, senza che ne abbia la reale percezione. Molto intenso è il momento in cui viene dimesso dall’ospedale psichiatrico: siamo alla fine degli anni 70 con la rivoluzione di Basaglia che, a più di 40 anni, rimane incompiuta negli intenti sociali.
Quando Liborio torna al suo paese, lo trova cambiato nella topografia, molte persone sono morte, altre, tra cui la desiderata Teresa, sono fisicamente modificate e non per il passare del tempo. Ciò che rimane sempre costante è la tenuta a distanza di chi non è conforme a ciò che la maggioranza definisce normale, salvo poi diventare il giullare del paese, quello su cui farsi due risate.
Interessante lo schema del racconto in un unico flusso di coscienza che, però, verso la fine tende a stancare proprio perché non è facile seguire i pensieri di un cocciamatte. Forse questo è il difetto, il limite di questa opera, che non ha tenuto conto che, nella vita reale, gli psichiatri hanno incontri settimanali di un’ora con i pazienti, durante i quali contengono l’eccessiva ridondanza di percezioni, di emozioni e ricordi. L’atteggiamento psicotico di Liborio, che l’autore ha ben descritto, è stato mantenuto per troppo tempo facendo perdere così il senso di questo lavoro e cioè la descrizione dell’umanità e non della malattia e della stranezza.
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